Responsabilità linguistica, ovvero l’arte come coscienza e incoscienza, tessuto e strappo

Il linguaggio è il mezzo della comunicazione quotidiana e, al contempo, dell’espressione artistica. Assumerlo acriticamente significa porsi nel solco della cultura del potere, significa consumare lingua, produrre lingua, come si consumano e producono tante altre merci; significa porre il fatto artistico sotto l’egida del potere.

Assumere acriticamente un genere letterario, senza la coscienza della sua evoluzione, senza contestualizzarlo, senza storicizzarlo, significa mercificarlo. Un autore siciliano che pratichi il romanzo giallo senza fare i conti con la rivoluzione e il rovesciamento del genere apportati da Leonardo Sciascia, non si immette nel solco dell’arte, della letteratura, ma in quello del mercato.

Coscienza individuale, senso critico, responsabilità sociale sono solo alcuni dei pilastri cui bisogna riferirsi se si vuole sfuggire all’inflazione e conseguente svalutazione di una forma assuefatta alle leggi della massificazione e dell’alienazione.
La lingua e il contenuto sono nelle nostre mani, plasmiamo un nuovo oggetto da consegnare all’altro ad ogni nuovo scritto. La responsabilità è verso noi stessi e il nostro essere. Bisogna opporre unità e autenticità alla rarefazione del linguaggio, alla frammentazione delle forme e del sapere, alla massificazione sociale.
Non è una chiamata alle armi, credo siano da ricercare altrove le forme di eroismo della contemporaneità: ai margini d’essa. Relativizziamoci, è giusto, ma rispetto a una storia, a una memoria, rispetto a una tradizione linguistica e letteraria con cui dialogare, che sia in senso di rottura o di continuità.

Siamo un microcosmo di letture, esperienze, immagini del mondo, immerso nel macrocosmo della tradizione artistica e culturale, in un corpo sociale appiattito e apatico, staticamente succube.

L’arte non è la tecnica, ma l’immaginazione, lo spirito creativo applicato all’espressione codificata nel corpus linguistico parlato e scritto. È coscienza e incoscienza, tessuto e strappo.

L’estetica novecentesca è stata una continua deviazione dalla norma. In epoca postmoderna, in cui l’io è frammentato, l’individuo col suo dramma intimo ed esistenziale gettato nella pattumiera della storia (è una citazione di Jameson), forse una nuova estetica può nascere in seno alla trasversalità sociale, al comune senso di umanità alla base del nostro vivere comune declinato in Occidente sul fondamento nominale dei diritti di uguaglianza, solidarietà e, non ultimo, dignità. Diritti formali, non sostanziali, cui pestiamo i piedi da soli ogniqualvolta assumiamo acriticamente forme e contenuti senza considerare l’alterità.

Credo sia la poesia la più grande forma di opposizione del nostro tempo. La poesia non come arte di scrivere versi, ma come sensibilità dell’animo umano capace di trovare adeguata espressione. Che riguardi il conflitto, il dolore o la bellezza intramontabile racchiusa nell’essenza delle cose, la poesia in fin dei conti è un atto di speranza, un atto d’amore immesso nel mondo. E diceva un musicista a me caro, un grande poeta, che un pensiero positivo produce milioni di vibrazioni positive.

Glenda Dollo

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