Sguardo dolce e acuto, capelli bianchi, eleganza semplice, una piccola signora d’altri tempi, abbiamo imparato a conoscerla così, schiva alle domande dei giornalisti, decisa a rimanere in silenzio, un’assenza di suono che ritroviamo nelle sue poesie, come parte fondante della loro creazione poetica: «Per me la poesia nasce dal silenzio», quello del foglio bianco.
Dieci anni fa moriva Wisława Szymborska, nata a Kórnik in Polonia nel 1923, è da molti considerata la più grande poetessa polacca di questo secolo. Condusse un’esistenza defilata, pubblicando poesie per alcune riviste e giornali locali e lavorando come redattrice e saggista. Durante gli anni ‘30, come altri intellettuali del periodo, si avvicinò al comunismo, dal quale però ben presto prese le distanze. A questo clima ideologico sono da ascrivere le sue due prime raccolte poetiche: Per questo viviamo, 1952, e Domande poste a me stessa, 1954. Ma fu la terza raccolta, Appello allo Yeti, a sancirne, nel 1957, il successo. Nonostante il grande interesse suscitato in patria e il Nobel conferitogli nel 1996, nel nostro paese per molto tempo è stata una illustre sconosciuta e le sue opere sono state accolte con freddezza dalla critica italiana.
Nella sua poesia nulla è definitivo, categorico, non è poetessa delle grandi verità, si interroga su ciò che vede, sull’esistenza che vive e che osserva scorrere sotto i propri occhi. Per questo molte delle sue poesie sono costellate di domande, alle quali però non fornisce mai una risposta definitiva, poiché impone a sé stessa una continua ricerca di senso, una curiosità che la porta ad affrontare i più svariati argomenti, mantenendo come sola costante quella del valore assoluto del dubbio. Fino ad arrivare a mettere in discussione il valore ontologico della poesia stessa.
La poesia –
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.
La poesia di Szymborska è caratterizzata dalla predilezione per il verso libero, che conferisce alle sue righe poetiche un andamento colloquiale, ma mai dimesso. Wislawa osserva il mondo con sguardo attento, sempre pronta a meravigliarsi della bellezza vitale che è celata in ogni cosa, poiché tutto per Wisława nasconde un profilo straordinario. L’autrice si stupisce di fronte ai dettagli dell’esistenza che svelano la grandezza dell’esistente.
Nel discorso per l’assegnazione del Nobel: «Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza alle sofferenze individuali […], qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi trapassati dalle radiazioni delle stelle […] questo mondo è stupefacente. […]».
Attenta osservatrice della natura delle cose, non può che dare grande risalto a un tema fondante come quello dell’amore, ma la sua riflessione muove dai piccoli dettagli quotidiani e, anche nel trattare un tema di questo tipo, riesce a farlo senza scadere nella classica retorica di stampo romantico. La sua cifra stilistica è l’ironia leggera, che come uno strato di polvere si adagia sulle cose del mondo e sulle persone.
Questa figlia del secolo, così amava definirsi, non appartiene a nessuna corrente letteraria, veleggia libera attraverso il mare della poesia, secondo regole sue proprie.
«Preferirei rivendicare il diritto di non scrivere sulla mia poesia. Quanto più l’attività creativa mi assorbe, tanto meno sento la voglia di formulare un credo poetico».
Così il modo migliore per avvicinarsi a Wisława è concedersi del tempo per abituarsi al silenzio, leggere in questo riscoperto vuoto, nel quale solo è possibile ritrovare la meraviglia di quel che ci circonda, quella trama latente di stupore che si cela sotto la superficie delle cose del mondo.
Ringrazio MIchela Chessa per questo coinvolgente e delicato articolo su Szymborska. Lascio, come mio piccolo contributo, una poesia di Szymborska che sentii recitare alcuni anni fa da Giuseppe Cederna in un meraviglioso piccolo borgo toscano, durante una meravigliosa sera d’inizio estate:
La cortesia dei non vedenti – Wislawa Szymborska
Il poeta legge le poesie ai non vedenti.
Non pensava fosse così difficile.
Gli trema la voce.
Gli tremano le mani.
Sente che ogni frase
è qui messa alla prova dell’oscurità.
Dovrà cavarsela da sola,
senza luci e colori.
Un’avventura rischiosa
per le stelle dei suoi versi,
e l’aurora, l’arcobaleno, le nuvole, i neon, la luna,
per il pesce finora così argenteo sotto il pelo dell’acqua,
e per lo sparviero, così alto e silenzioso nel cielo.
Legge – perché ormai è troppo tardi per non farlo –
del ragazzo con la giubba gialla in un prato verde,
dei tetti rossi, che puoi contare, nella valle,
dei numeri mobili sulle maglie dei giocatori
e della sconosciuta nuda sulla porta schiusa.
Vorrebbe tacere – benché sia impossibile –
di tutti quei santi sulla volta della cattedrale,
di quel gesto d’addio al finestrino del treno,
di quella lente del microscopio e del guizzo di luce dell’anello
e degli schermi e degli specchi e dell’album dei ritratti.
Ma grande è la cortesia dei non vedenti,
grande la comprensione e la generosità.
Ascoltano, sorridono e applaudono.
Uno di loro persino si avvicina
con il libro aperto alla rovescia,
chiedendo un autografo che non vedrà.