La carica spirituale nell’amore supremo di John Coltrane

John Coltrane era un musicista umile, che a lungo si fece le ossa suonando rhythm and change, un genere derivato dal blues. Suonò con Gillespie in epoca bebop, ma fu con Miles Davis che gettò le basi di un futuro volto a lasciare un segno indelebile nella storia della musica e dell’immaginario collettivo, quando fu chiamato a sostituire al sax tenore Sonny Rollins. Non intendo percorrere la carriera di quest’anima nobile, ma tracciarne un profilo personale partendo soprattutto dall’album A Love Supreme, che, pur esprimendo una spiritualità intensa, riesce a regalare una carica unica. E l’energia che emana questo disco, registrato in un’unica sessione live a partire da una traccia scritta da Coltrane in un momento di solitudine, è palpabile in ognuna delle quattro parti in cui l’opera è suddivisa. È un misto di free e modale. La prima parte, ad esempio, Aknowledgement, è costruita su un giro ripetitivo di soli tre accordi, su cui si innesca l’improvvisazione di questo quartetto magico, un unicum nella storia della musica, sia dal punto di vista prettamente linguistico-espressivo che da quello umano.

Nella copertina dell’album Coltrane scrive:
Words, sounds, speech, men, memory, thoughts, heart and emotons – time – all related… all made from one… all made in one. Thoughts waves – heart waves – all vibrations – all paths lead to God.

Questo disco è un inno sacro, una preghiera in senso arcaico all’unicità e universalità della vita, anzi a quella fonte da cui essa scaturisce. Coltrane era votato a una spiritualità personalissima, onesta e vera e sperava la sua musica potesse innalzarsi come un salmo laico a cantare la bellezza del creato per riuscire a comunicarla. Si voltò indietro, agli spirituals e al blues, vale a dire alle origini africane della musica nordamericana che conosciamo con il nome di jazz. Questa musica, giuntaci nella sua forma già sviluppata e contaminata con la musica europea, ha origini popolari e nere. Origini umili, che vanno rintracciate nei canti intonati durante il lavoro nei campi di cotone per dare giustificazione e cercare riscatto alla schiavitù, per liberare e fare volare l’anima, per dare umanità e ritmo a fatiche disumane, per cercare conforto all’ingiustizia delle violenze subite. Per molti, si tratta della forma espressiva più alta raggiunta dalla cultura americana, che in letteratura può trovare un corrispettivo, a mio parere, non tanto nella beat generation, quanto nella poesia di Walt Whitman.

Coltrane era anche un perfezionista. Per anni si esercitò in maniera quasi ossessiva nell’uso delle scale, che variava imprevedibilmente nell’improvvisazione, acquisendo una varietà espressiva unica, in cui l’aspetto personale legato al timbro e all’intensità sonora era accentuato in maniera vorticosa in connessione al fraseggio. Nacquero i Coltrane changes e i cosiddetti sheets of sounds, tappeti sonori. Fu tra i pionieri del jazz modale, che svincola il fraseggio dall’armonia tonale, donando maggiore libertà melodica al solista, e sarà uno dei fondatori del free jazz. Esplorò la musicalità di altre culture, come quella indiana e orientale, la cui musica tradizionale è profondamente legata all’esercizio meditativo, che lo stesso Coltrane praticava.
Come il mantra della meditazione, la musica nasce a partire da una cellula tematica sulla quale si improvvisa. Lo stesso procedimento può essere rintracciato in A Love Supreme. Il giro di basso è il respiro collettivo del gruppo, su cui si innalza la preghiera, questo canto d’amore a tratti sussurrato, a tratti urlato, che fa della musica una scala di elevazione per l’anima e dell’anima il tramite espressivo del linguaggio musicale. L’amore è esperito nella sua varietà ed eterogeneità essenziale. Per Coltrane siamo tutti chiamati all’amore, vale a dire a innalzarci umanamente, come individui. Migliorare umanamente significava per lui migliorare musicalmente, e viceversa. La musica non è un mezzo espressivo artistico nel senso in cui lo intendiamo comunemente in questo mercato collettivo in cui ciascuno si affanna per il successo, ma un mezzo per crescere e migliorarsi, un mezzo per esprimere la propria individualità umana in corrispondenza del mondo e dell’universalità in cui tale individualità è immersa. Tutto è vibrazione, tutto è musica nell’esistente, tutto respira, tutto è suono. E la musica di Coltrane davvero riesce a dare voce a quest’immensa sinfonia universale in cui siamo immersi. È incredibile come un quartetto sia riuscito a dare espressione a una musica così intensa ed eterogenea. È incredibile anche pensare come il volgersi indietro, alle origini della propria cultura individuale, possa costituire il tramite per scrivere un futuro diverso.

A San Francisco, esiste una piccola comunità ortodossa che venera Coltrane come un santo: con icona, aureola, chiesa e tutto il resto. Ma anche tra noi miscredenti, incerti sul percorso da seguire, scettici e un po’ stoici, immersi in una contemporaneità difficile da decifrare e accettare, senza particolari pretese religiose, Coltrane parla la sua lingua universale: la musica. E continuerà a parlarla, come un dono eternato nell’istantaneità del canto e del respiro, per i giorni a venire.

Glenda Dollo

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