La fotografia come arte della tecnica

La fotografia ha rivoluzionato il modo in cui l’essere umano si esprime artisticamente. È un fatto. Ma, soprattutto, ha sollevato la questione relativa alla definizione di arte e oggetto artistico. Qual è il confine tra arte e tecnica? Una questione quanto mai attuale in un’epoca in cui la tecnica e la scienza fanno da padrone e in cui, allo stesso tempo, si moltiplicano gli artisti, mai tanto numerosi.
La fotografia annovera Baudelaire tra i suoi detrattori. Secondo il poeta, la fotografia non può essere considerata arte, poiché non fa che riprodurre la natura e la realtà senza il contributo specifico del suo autore, che, pertanto, non può essere considerato artista. Troppo legata all’industria e alle dinamiche della produzione, essa si limita a offrire ciò che già esiste. La fotografia, dunque, sembra dire Baudelaire, non è arte perché riproduce e non crea.

Édouard Boubat

Senza entrare nel merito della dialettica esistente tra pittura e fotografia, ricordiamo che la prima mostra impressionista fu ospitata nello studio di un fotografo e che, d’altro canto, perfino pittori futuristi che inneggiavano alla tecnica, come Boccioni, osteggiarono tale mezzo espressivo. Nacque presto l’astrattismo. Nella società attuale va per la maggiore l’iperrealismo.

Quale può essere il confine tra arte come tecnica e arte come espressione? La tecnica è sempre espressione dell’individualità artistica? Quale il confine tra arte e artigianato? Pensiamo ai preziosi intarsi, ai mosaici. E pensiamo a Kandinsky. Come si è evoluta l’arte? Aveva ragione Baudelaire a individuarla nell’unicità di prospettiva e ispirazione dell’artista demiurgo che crea l’opera o avevano ragione gli impressionisti a esaltare le possibilità tecniche del nuovo mezzo?

Dice Walter Benjamin, nel noto saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che mezzi come la fotografia e il cinema hanno privato l’opera d’arte di quella che egli definisce aura, ovvero del suo elemento cultuale, quella sorta di venerazione intrisa a misticismo che essa infondeva un tempo, quando l’arte era appannaggio di pochissimi, non solo di coloro i quali la commissionavano, o la facevano, ma di coloro i quali ne erano a contatto nelle città. L’ arte era elitaria. Non è una novità. Continua, il filosofo, dicendo che il valore dell’arte nella società moderna è rifondato nella valenza che essa assume nella vita quotidiana o, meglio, nella possibilità concreta che essa ha di cambiare la vita quotidiana delle persone. Vale a dire, non tanto nel suo valore estetico, quanto in quello politico.
Eppure, oggi l’arte è un prodotto di massa che consumiamo come tanti altri. Restiamo senza fiato agli Uffizi o nella Cappella Sistina, ma tutto sommato è un’esperienza in mezzo alle tante altre che facciamo.
Ci riferiamo spesso alla società contemporanea come società dell’immagine. E vogliamo con quest’espressione significare il bisogno diffuso di apparire, avere visibilità. È una società consumistica la nostra, in cui si aspira al successo e al benessere anziché alla giustizia, all’uguaglianza, alla pace, a crescere umanamente.
Che avesse ragione Baudelaire?

Se è vero che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, questo vale anche per l’arte. E vale anche per la fotografia.
Rimaniamo affascinati dai baci di Mario De Biasi, dalle scene quotidiane di Doisneau e Bresson, dalla gentilezza commovente e serena di Boubat, dai reportage di Capa, dalla serie The Americans di Robert Frank (per non parlare delle foto private, quelle scattate ai suoi cari, che sono di una delicatezza emotiva senza pari), dai freaks di Diane Arbus. E ancora dall’Oriente di Maraini, dalla Sicilia di Sellerio e Leone, dalla Venezia di Berengo Gardin, dal’ 68 di Riboud, per citare solo alcuni dei fotografi cui sono più affezionata.

Oggi siamo tutti fotografi: amatoriali, sì, ma lo siamo tutti. Oggi siamo tutti un po’ artisti.

E allora forse questa forma di espressione che meglio di ogni altra unisce sotto un cielo comune, ossia la fotografia, può aiutare a fare riflettere sul fatto che mai come oggi l’arte è stata così trasversale, un elemento alla portata di tutti e unificatore, che però sembra non bastare a sconfiggere la cosiddetta etica del profitto e del successo a tutti i costi.
L’arte un tempo non era autoriale, ma patrimonio condiviso di una comunità. Con il Romanticismo e l’avvento degli Stati Nazionali, essa assurse a bene comune in seno al diffuso patriottismo. Ma oggi, in un mondo globalizzato, in una società massificata, quello che dovremmo fare è abbattere muri e cancellare confini, avvicinarci gli uni agli altri, crescere con l’arte, mediante l’arte, e acquisire consapevolezza. E, paradossalmente, questo non può donarcelo nessuna tecnica che padroneggiamo, se non è coniugata a quel fuoco di cui parlava Baudelaire.

Glenda Dollo

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