Sono Niara. Sono africana. Sono nera.
Il mio nome è di origine swahili, significa “colei che ha grandi propositi”, e ne avevo, prima che il mio padrone mi uccidesse.
Fui venduta moltissimi anni fa a dei bianchi che mi tennero come schiava in una missione europea, in Spagna più precisamente. Lavoravo notte e giorno, ricordo che ero giovane e bella, e vedevo con molta pena le mie belle mani nere rovinarsi per il lavoro della fattoria. Pulivo la casa, il giardino di quell’enorme tenuta. Non mi lamentavo, ero una donna nera e non avevo diritto a un futuro migliore.
La mia famiglia era rimasta nel continente nero, i miei genitori erano molto vecchi e malati quando mi vendettero. Nonostante il dolore che provai nel lasciare la mia terra, sentii anche una sorta di sollievo perché era l’unica maniera per inviare soldi ai miei genitori.
E così fu, lavoravo senza giorni liberi, dall’alba al tramonto. I miei padroni erano molto esigenti, soprattutto la signora, che era una donna grassa e bassa. Era molto difficile accontentarla. Facevo tutto quello che mi chiedeva e non era mai abbastanza. Il padrone, il signor Roberto, era un uomo molto affascinante, biondo, con enormi occhi azzurri. Mi rendevo conto di essermi innamorata di lui, di quell’uomo con la pelle così chiara.
Il signor Roberto era molto gentile, molto dolce nei suoi modi di fare. Io ero una negra abbastanza rozza, devo ammetterlo. Quando arrivai in Spagna, non sapevo né leggere né scrivere, ma ero molto bella, non passavo inosservata. Avevo due bei seni neri, che sapevo come mettere in risalto benché fossi vestita da schiava. Sapevo che lui se n’era accorto. Il signor Roberto trovava sempre qualche scusa per venire in cucina, e chiacchieravamo. Gli stavo simpatica, e più di una volta la signora sentì le nostre risate e ci scoprì. Riusciva sempre a capitare dov’eravamo e s’infilava tra di noi. Poi li sentivo litigare attraverso la porta della cucina, ma quella situazione non mi preoccupava, anzi, credo che in fondo mi desse la speranza di qualcosa…
Non avevano figli, credo che fosse lei a non poterne avere, e forse era questa la ragione del suo temperamento, così amaro. Negli ultimi tempi la signora mi obbligava a fare dei lavori estremamente duri, spostare mobili da una stanza all’altra, da sola, spostare enormi vasi di fiori nel patio, sono sicura che lo facesse per farmi ammalare.
Una sera piovosa e fredda, in inverno, la signora andò a fare visita a sua madre, e il signor Roberto rimase da solo nella tenuta, lavorando nel suo studio lugubre. Bussai alla porta per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa e lui mi disse di sì. Mi chiese di entrare e io lo feci. Indossavo i miei stracci bianchi di sempre, il mio fazzoletto sporco sulla testa conteneva i riccioli. Il signore si alzò dalla sua noiosa scrivania, mi fissò, mi tolse il fazzoletto dalla testa e iniziò a baciarmi. Mi strappò il vestito, mi girò di spalle contro la scrivania e mi penetrò. Fu molto violento, lui si muoveva senza fermarsi, mi faceva male ma mi piaceva, non riuscivo a smettere di chiedergli di non fermarsi. Poi mi girò verso di lui, mi baciò i seni, gonfi per il piacere. Dal seno scese lungo il corpo, varie volte, poi mi prese per i capelli e portò la bocca verso il suo sesso, lo baciai, lo baciai a lungo e lo leccai, e all’improvviso sentii il liquido caldo scorrere tra le mie labbra. Quando finì, io piansi, piansi molto, abbracciata a lui, gli confessai che la schiava con la quale aveva fatto l’amore era vergine. Mi guardò e mi disse che era la cosa più dolce che gli avessero mai detto in vita sua. Mi disse di amarmi, che si sarebbe preso cura di me.
Andammo insieme a farci il bagno. Il signor Roberto mi lavò, lavò i miei capelli neri con molta delicatezza, passò dolcemente il sapone profumato di rose sulla mia schiena fino alla vita. Era la prima volta che un uomo faceva questo per me. Mi chiese di continuare, in segreto. Disse di non poter stare senza di me, ma per il momento non poteva lasciare sua moglie per gli interessi e per i soldi. Io accettai, perché era da tanto che lo desideravo.
I nostri incontri continuarono, e la mia padrona mi trattava sempre peggio, mi faceva lavare gli animali, avevano cavalli, cani, dovevo occuparmene io. Una mattina ero nella stalla, davo da mangiare ai cavalli, quando sentii dei passi. Era il mio uomo bianco con gli occhi azzurri. Io indossavo sempre la stessa roba. Lui si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio di togliermi la biancheria. Lo guardai sorpresa con i miei grossi occhi neri, ma lo feci, mi tolsi le mutande. Mi chiese di continuare a dare da mangiare ai cavalli. Io mi aggrappai alla parte interiore della porta della stalla per allungare la biada, e lo sentii avvicinarsi e tirarmi su la gonna. Si infilò sotto e iniziò a baciarmi il sesso senza sosta. Non riuscivo più a concentrarmi su quello che stavo facendo. Afferrai il legno ruvido della porticina con tutte le mie forze. Deliravo per il piacere. Potevo solo concentrarmi su ciò che sentivo. Sentivo i baci e la lingua del mio uomo. Lo tirai fuori da lì, lo gettai su una montagna di paglia e mi spogliai. Lasciai i miei seni liberi, perché sapevo come lo eccitavano, mi sedetti su di lui e cominciai a cavalcarlo. Lui girava gli occhi di qua e di là, e gemeva di piacere. Fu un incontro molto breve. I cavalli erano nervosi, in qualsiasi momento avrebbe potuto apparire qualcuno. Ricordo che quegli attimi di adrenalina erano squisiti.
Passarono i mesi e gli anni, e continuavamo con la stessa passione. Non gli chiedevo di lasciare sua moglie, non potevo offrirgli nulla io, né agi, né cultura, avevo soltanto lui, il suo amore, il suo sesso, e mi bastava per essere felice.
Erano già passati cinque anni. La signora sospettava, i suoi maltrattamenti erano andati peggiorando, ma a me non importava, io ero la schiava, la serva, era il mio lavoro, non mi sarebbe mai passato per la testa di lamentarmi. Stavo meravigliosamente con il signore, con quel sesso sfrenato quasi tutti i giorni. Ma un giorno accadde qualcosa di diverso. Il signore si stava facendo la barba, in bagno, ed io passai di lì per lasciare gli asciugamani puliti. Lui si guardò in giro e all’improvviso mi tirò dentro. Io non persi tempo, gli tirai giù i pantaloni e cominciai a baciargli il sesso, già duro, tutto per me, per la mia bocca. Mi sollevò, mi mise sulla vasca da bagno di porcellana, fredda, mi spogliò e iniziò a baciare il mio sesso e a penetrarmi. Mi baciava i seni che amava tanto ed io non feci nulla, mi lasciai solo amare follemente, sfrenata e ardente. Stavolta non fece attenzione, ed io non mi preoccupai perché sapevo che il mio padrone era intelligente e non avrebbe permesso che accadesse nulla di male. Me lo aveva promesso.
Dopo diversi mesi, non avevo le mestruazioni. Ero preoccupata perché era qualcosa che stavo tenendo per me. Non c’era nessuno a cui raccontarlo, neppure al mio uomo. Ma la padrona sospettava che mi stesse succedendo qualcosa perché le mie forze non erano le stesse, avevo mal di stomaco, benché cercassi di nasconderlo. Fino al giorno in cui ho scoperto di essere incinta. Una mattina tiepida di primavera, gli ho chiesto di parlare, eravamo sotto l’albero più bello del giardino, lontano dalla porta principale del caseggiato bianco. E così fu, ci sedemmo sotto i rami e gli rivelai che stava per arrivare nostra figlia, o nostro figlio. Lui mi guardò con gli occhi spalancati, uno sguardo di spavento che non riuscì a nascondere, mi chiese di lasciarlo pensare come risolvere quella situazione. Quella sera andai a dormire felice, il mio signor Roberto sapeva tutto e siccome mi aveva detto che avrebbe “risolto quella situazione” mi aveva dimostrato quanto mi amava. Quella frase significava che avrebbe finalmente lasciato sua moglie.
Passarono un po’ di giorni. Lui cercava di evitarmi, non veniva più a chiacchierare in cucina, non mi cercava di nascosto nella stalla. Così una sera lo cercai io nel suo studio per parlare un po’. Mi disse che non poteva in quel momento, io gli chiesi una spiegazione del suo comportamento. Mi disse che non voleva il mio bebè, pretese che mettessi fine alla gravidanza. Nessuno in paese avrebbe dovuto saperlo. Uscii da quella stanza distrutta, mai nella mia vita avevo sperimentato una simile angoscia. Ma non piansi, non lasciai venir fuori neanche una lacrima. Allo stesso tempo mi chiedevo cosa sarebbe stato di me, non avevo nessuna possibilità di tornare in Africa, e non avevo nessuno in quel paese, ero persa, confusa e stordita. Il giorno seguente lo feci, non c’era altra soluzione, non c’era una via d’uscita per me. Cercai una corda grossa, una panchetta e andai sotto lo stesso albero. Legai la corda al collo e uccisi me e il mio bambino.
Traduzione dallo spagnolo: Franco Malanima