Del far ridere e dell’essere genitori

Oggi parto da qui: la mia vicina di casa, anzi per l’esattezza la ragazza che vive sotto di noi. Al rientro da scuola, ore 13:30, io cucino, Pietro gioca in camera dopo 5 ore seduto, distanziato, con mascherina. Mio marito mi chiama per dirmi che a sua volta è stato contattato da F.F. che ci intima di far smettere i cavalli sulla sua testa. Deve riposare perché dovrà fare la notte: è infermiera. Questo rapporto deleterio con F.F. è iniziato con il suo trasferimento in coincidenza della pandemia, il nostro forzato rintanamento e il suo lavoro massacrante. Ora, come convivono un bambino, detto da altri “tranquillo”, e un’infermiera, a sua detta “con difficoltà a riposare”? Odiandosi sinceramente. E la ragione dove sta? Nel mezzo, giace sopita in questo sottile soffitto/pavimento Anni Settanta che ci divide.
Mi viene in mente il “film di famiglia” visto l’altra sera Ti presento Sofia in cui il malcapitato Fabio De Luigi (ha sempre questi ruoli) nasconde di avere una figlia alla nuova fidanzata perché lei odia i bambini. 

Ed ora arriviamo al libro di cui voglio parlarvi e che cito:
“Non hai figli non puoi capire” è una frase odiosa quanto vera, ma solo se si aggiunge una precisazione, una postilla. Non hai figli e quindi non puoi capire la fatica della paura. Una persona senza figli se teme il peggio teme un orrendo accidente senza nome che può capitare a lui e ai propri cari. Un padre e una madre se temono il peggio temono un orrendo accidente senza nome che può capitare al loro bambino. Che il peggio accada ai tuoi figli è il peggio che possa accadere.

L’autrice la chiama la “fatica della paura” ecco il nome esatto di ciò che mi accompagna da quando ho un figlio. Grazie Enrica Tesio, che hai trovato le parole esatte. Le userò di certo per spiegarmi e chiedere comprensione.
Alla grande paura fanno da corollario paure di varie gradazioni: delle malattie, degli incidenti, dell’asma, del Covid, della guerra, degli errori sanitari, educativi, di non essere un buon “allenatore emotivo” per dirla alla Alberto Pellai, e di non riuscire a ficcargli un antibiotico in gola quando ce n’è bisogno.
Paure indotte, condivise. Stesso giorno, sera: mio marito è nel divano con gli occhi arrossati, ha pianto: il figlio di una sua cara collega è caduto dal motorino ed è in rianimazione, con i due femori rotti e l’arteria femorale ricucita.
Allora chiedo ai non genitori, che trovo sempre più esigenti e più preparati sul come prendersi cura di un bambino, di supportarci e sopportarci perché ci portiamo addosso questa “fatica della paura”.
Questa è la fatica più “melodrammatica” che Tesio ci racconta nel suo ultimo libro Tutta la stanchezza del mondo, in cui analizza ben dodici fatiche con un tono brillante, canzonatorio, autoironico. Comici spaccati di realtà vissuti in prima persona, in qualità di donna, madre, amica, amante, figlia, professionista, sono utilizzati per definire le fatiche del nostro tempo, in cui non siamo più capaci di riposarci, in cui anche quando non lavoriamo, “lavoriamo su noi stessi”.
Una società dove ci hanno convinto che “se vuoi, puoi”, dove siamo i fautori del nostro destino e quindi sempre al lavoro per migliorarlo, dove siamo i datori e al contempo i dipendenti di noi stessi: l’autrice cita a lungo, nel capitolo dedicato al lavoro, La società della stanchezza di Byung-Chul Han.

Il libro è un susseguirsi di parole nuove nate dall’inventiva di una copywriter quale l’autrice è, di citazioni, modi di dire, riferimenti musicali, televisivi, filmici, letterari.
La scrittura è densa e rapida. Mi faccio l’idea che sia una persona che pensa e parla veloce, cambiando direzione con facilità. Far ridere fino a sentire il suono e vedere i denti è cosa ben difficile per un libro, nato con questo scopo, oltre che per farci riflettere sulle storture del nostro tempo. A proposito di comicità, memorabile per me fu l’incontro con Zia Mame di Patrick Dennis. Ma rendo merito a Tesio perché in questo libro per diversi tratti c’è riuscita a farmi ridere.

Ecco alcuni esempi: la descrizione dei giovani parrucchieri che alla richiesta di una tinta fanno il color storytelling. “Noi non tingiamo i capelli, noi ti aiutiamo a tirar fuori il tuo colore interiore”. E in questo dialogo immaginario l’autrice risponde “Vorrei sbagliarmi, mio giovane amico storyteller delle teste canute, ma hai ancora la lanugine neonatale e la tua fontanella aperta. Sono anni di ricrescita che ti stanno parlando. Devastami. Prendi l’ossigeno, il petrolio, l’ammoniaca, l’idraulico liquido, il Naplam. I miei bulbi non temono nulla, sono stati sottoposti a diciotto shampoo antipediculosi in tre mesi, secondo te hanno paura?

Oppure la descrizione delle Fighe Indie, ovvero delle ragazze nei video dei cantanti indie, tipo Gazelle o Coez: È molto importante che la FI a un certo punto del video stia seduta sulla tazza con gli slip a mezzo polpaccio. La minzione è un topos dei video indie. La FI è basica: mangia, beve, sta in bagno, fuma. E a un certo punto fa il broncio, si offende perché quel birbante dietro la telecamera le ha fatto un dispetto, probabilmente le ha nascosto il crack o le Pringles”.

Un capitolo del libro è dedicato alla fatica della “Casa”, anche del trovare casa, soprattutto quando la sua famiglia si allarga con un nuovo compagno e cinque figli in totale. Un libro in cui molte trentenni / quarantenni potranno riconoscersi, un libro che non so perché, forse perché ho scoperto che l’autrice è torinese, mi ha ricordato la leggerezza della serie Guida astrologica per cuori infranti ambientata a Torino.

Monica Bernacchia

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