Palermo la rossa, la bambina. L’arte di Letizia Battaglia

Letizia Battaglia non si definiva fotoreporter, né tantomeno fotografa di mafia. A dire il vero, lei non si definiva nemmeno fotografa, ma, semplicemente, una persona che scatta fotografie.

La sua umanità traspare in ogni fotogramma. Scattava senza teleobiettivo avvicinandosi il più possibile al soggetto, usando, magari, il grandangolo. E per fare questo, stabiliva un legame empatico con i protagonisti dei suoi scatti, che sono soprattutto donne e bambini di una Palermo dilaniata dalla mafia. “Palermo la rossa, la bambina” è la città cui Letizia Battaglia rimase legata per tutta la vita, la città da cui non riuscì mai a distaccarsi in maniera definitiva, nonostante i numerosi inviti di tanti fotografi di fama internazionale a trasferirsi a Londra, Parigi, New York. Il suo legame con Palermo, città in cui nacque nel 1935, era indissolubile. E racconta questo legame innanzitutto nei volti delle bambine, per lo più preadolescenti, che, con estrema empatia, amava fotografare. Il loro sguardo soave e greve, ma innocente e pulito, si posa sul mondo con estrema serietà. La stessa che Letizia Battaglia aveva alla loro età.

Sposatasi per la prima volta a soli sedici anni con nozze riparatrici, innamoratissima, inizia presto a provare insofferenza verso il matrimonio e il marito, che soffoca la sua curiosità, il suo desiderio di fare, sapere, imparare. Autodidatta, inizia tardi a fotografare, a quasi quarant’anni. Nel 1969 inizia la sua collaborazione con L’Ora di Palermo, storica testata comunista e antimafiosa. Il suo primo scatto ritrae una prostituta che era stata testimone dell’omicidio di un’altra donna. Inizia così la sua febbrile attività di fotoreporter per questo glorioso giornale, per il quale immortala pezzi celebri della storia siciliana e del periodo della guerra di mafia. Fu la prima ad arrivare sul luogo del delitto dell’omicidio di Piersanti Mattarella, ritraendo l’attuale Presidente della Repubblica che tiene tra le braccia il cadavere del fratello ucciso. Si lamentava, Letizia Battaglia, di non essere riuscita ad arrivare in tempo per immortalare i sicari. Fu lei a ritrarre Giulio Andreotti con il famoso mafioso esattore Salvo, lei a fotografare l’arresto di Bagarella, mentre lui, umiliato dal fatto che fosse proprio una donna a fotografarlo, le sferrava un calcio. Era lei a funerali di Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, lei che si era rifiutata di fotografare il corpo straziato di Boris Giuliano. Nel 1992, gli anni delle stragi, dopo la morte di Falcone e Borsellino, avvertì un sentimento di frustrazione e sconfitta che la indusse a fermarsi. Volle partire per un lungo viaggio, allontanarsi da Palermo, dalla Sicilia, dai corpi esangui di tante persone care, di tanti eroi che cadevano dopo aver combattuto alacremente, senza risparmiarsi.

L’impegno è la caratteristica principale degli scatti di Letizia Battaglia, che nel bianco e nero rigoroso, il quale evoca senza suggestionare, stagliando le figure sulla scena senza lasciar spazio alle distrazioni date dal colore, esprime l’urlo straziante di una città, di una collettività. Ma l’impegno non si esaurisce nella dimensione giornalistica, di fotoreporter. Non solo perché si tradusse in attività politica, ma perché si tradusse in arte. La fotografia è linguaggio, comunicazione. E Letizia Battaglia, da “persona che scattava fotografie”, riuscì a parlare di sé mentre parlava di Palermo, mentre denunciava la mafia.

Amava fotografare le donne, e proprio Corpo di donna è il titolo di una mostra e un libro in cui la donna diviene fulcro della comunicazione. “Perché il corpo della donna? Perché le donne sono belle. Le donne mi piacciono, mi piacciono tutte, mi piace la loro grazia, la loro forza, la loro femminilità e voglio raccontarla questa grazia, questa forza, questa femminilità in un modo diverso da quello cui siamo abituati. Voglio donare alle donne uno sguardo che non sia lo sguardo di un uomo ma lo sguardo di una donna che vede le altre donne per quello che sono. Che non le manipola. Che non le altera. Che non le fruga. Che non le influenza con le sue certezze su quello che dovrebbero essere”.

Due fotografie su tutte a rappresentare il mondo di Letizia Battaglia e della sua (della nostra) Palermo. La prima è quella di un corpo di donna rannicchiato su una terrazza con alle spalle il meraviglioso paesaggio di Palermo ai piedi del Monte Pellegrino. Mi sembra quasi un manifesto espressivo questa foto. Un corpo di donna visto nella sua bellezza e fragilità, che non esplode nella voluttà, ma si piega su se stesso, curvato, quasi più che pudico, vergognato, mi pare sia una splendida metafora di Palermo, di questa città che non risplende della sua luce, che non riesce ad ergersi al di sopra dei suoi orrori, dell’omertà, della follia mafiosa. E Palermo, una metafora dell’Italia intera.
L’altra è il ritratto di Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, ucciso dalla mafia nell’attentato al giudice Falcone. La ricordo, Rosaria, quando, ai funerali di Stato del marito, affranta, in lacrime urlava ai mafiosi: “Io vi perdono, ma vi dovete inginocchiare”. Letizia Battaglia la ritrae nella sua lacerazione, con parte del viso all’ombra e l’altra metà alla luce, gli occhi chiusi, a suggellare una ferita aperta, un dolore irredimibile.

Ma la metà alla luce è quella in cui non ci si piega, non ci si abbatte, quella in cui ci si impegna, quella in cui tutti noi urliamo ai mafiosi: “Vi perdono, ma vi dovete inginocchiare”, che è, soprattutto, una grande lezione di speranza, consapevolezza e civiltà.

Glenda Dollo

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