Vincenzo Consolo, “La letteratura è sempre politica”

Incontrai per la prima volta Vincenzo Consolo a Sant’Agata di Militello nel 2004. Avevo appena compiuto 24 anni. Gli avevo scritto una lettera piena di passione dopo averlo scoperto, grazie a Giulio Ferroni, studiando il terzo corso di letteratura italiana all’università. Mi rispose, certo grazie all’aiuto di sua moglie Caterina, con un’email commovente; email che ancora conservo. Mi infatuai immediatamente della sua scrittura, che mi pareva il necessario passo da compiere nella storia letteraria della lingua italiana. Una scrittura espressiva, vale a dire pregna di valore comunicativo sul piano del significante e non solo del significato. Una scrittura di opposizione, innanzitutto al potere egemone che ha piegato la comunicazione, anche letteraria, al piano della pura referenzialità.

Ho sempre letto moltissimo, soprattutto classici. Quando lessi Consolo per la prima volta, mi trovai a mio agio a navigare in quella scrittura così eterodossa, alternativa alla lingua impraticabile della modernità. Soprattutto, avvertii immediatamente un sentimento di curiosità misto a familiarità: faceva indubbiamente parte di quel sovramondo letterario che avevo imparato a conoscere e che, ancora, esploro avidamente. Mi trovavo al cospetto di un classico: un classico contemporaneo. Non capita tutti i giorni.
Impiegai molto tempo a conoscerlo, dentro e fuori la letteratura. E manca, manca moltissimo.

Dedicai alcuni anni di dottorato allo studio dei suoi articoli giornalistici: perché Consolo era anche, e soprattutto, un grandissimo giornalista. Scrisse su tutte le principali testate italiane, su Tempo Illustrato, su periodici e riviste di ogni genere, ma, soprattutto, su L’Ora di Palermo: il “suo” giornale. Teneva negli anni Sessanta, appena giunto a Milano, una rubrica intitolata Fuori Casa, in cui raccontava la città dalla sua posizione decentrata di emigrato. E scrisse, Consolo, moltissimo, di migrazioni. Della sua, concreta, corporale, nella città in cui frequentò l’università, in cui fu visse con la moglie Caterina, di quella di ognuno, in questo peregrinare che è la vita, di quella meridionale nel Nord dell’Italia e dell’Europa, fino a quella cui ancora assistiamo, da spettatori indifferenti, dall’Africa attraverso il Canale di Sicilia. Fu cronista, soprattutto in occasione del processo contro Michele Vinci, il cosiddetto Mostro di Marsala.

Scoprivo questi gioielli di storia e scrittura, recandomi in biblioteche, spulciando archivi, giornali sgualciti. In seguito fu Caterina la mia guida, che per me dischiudeva scrigni in cui conservava, gelosamente, copia di ogni scritto del marito. Un archivio unico, nato e custodito dall’amore.

Per Consolo il giornalismo non era una palestra di scrittura, bensì, da marxista gramsciano qual era, un mezzo concreto per agire sulla società di cui era parte. Scriveva, lui, che la letteratura è sempre politica, perché nasce da un contesto e ad esso si rivolge, e lamentava la rottura del rapporto tra scrittore e società.
Studiavo quegli articoli meravigliosi apparsi su L’Ora con un sentimento di incredulità misto a soggezione. E con una passione incredibile, derivante dalla più trasparente e onesta ammirazione.

Proprio quest’anno ricorre il decennale della scomparsa di Vincenzo Consolo.
Lo sentii telefonicamente l’ultima volta per il suo compleanno, che non dimenticavo mai. Ho tanti rimpianti, ma conservo anche ricordi meravigliosi. Una volta volle conoscere i miei genitori. Fu un incontro che non dimenticherò. Come non dimenticherò mai il suo sguardo: nero, profondo, saggio e benevolo.

Glenda Dollo

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