La morte della bellezza, il romanzo dimenticato di Giuseppe Patroni Griffi

Esiste nella memoria della mia infanzia di spettatore dei classici del cinema una immagine di bellezza spavalda che devo a Luchino Visconti. In Ossessione, suo film d’esordio del 1943, un giovane Massimo Girotti quasi vestito di stracci si presenta preso dai morsi della fame nella locanda di proprietà del marito di Clara Calamai: la cinepresa gli va incontro, quasi lo assale come se desiderasse divorarlo e ce lo mostra in tutta la sua seducente esuberanza e nella sua accanita volontà di scampare al momento in cui si trova suo malgrado a vivere, è in definitiva la quintessenza della vitalità senza freni della giovinezza, una immagine magnetica di bellezza anarcoide e avida in un’epoca di caos, guerra e fame da cui Clara Calamai – e con lei lo spettatore – rimane folgorata all’istante.

Vent’anni più tardi, in un contesto culturale del tutto mutato, un allievo di Visconti debuttava alla regia imponendo sulla scena una immagine di bellezza complementare a quella di Ossessione. Ne Il mare Giuseppe Patroni Griffi ambientava in una mesta Capri invernale l’incontro amoroso tra una giovane donna e un attore in vacanza, interrotto in modo inaspettato dalla tensione erotica che un ragazzo del luogo esercita sull’uomo più maturo. Con l’apparizione al suo primo film del giovane Dino Mele che seminudo fuma una sigaretta davanti a una finestra che dà sul panorama caprese, Patroni Griffi omaggia il suo Maestro fissando forse senza volerlo un preciso momento storico che apparenta in modo inequivocabile le due immagini. All’euforia famelica di Girotti che incarna il bisogno irrefrenabile di farcela in una disordinata fase di passaggio dalla dittatura alla libertà, si lega l’infastidita ritrosia del giovane Mele, espressione della rabbia trattenuta di una generazione che esploderà di lì a poco, ma che nel maldestro tentativo di manifestare il proprio intenso desiderio sembra cogliere l’inevitabilità e il peso delle sconfitte a venire.

Nato a Napoli nel 1921 da una famiglia aristocratica, Giuseppe Patroni Griffi ha attraversato da protagonista oltre mezzo secolo di scena artistica italiana, scrivendo romanzi e racconti, sceneggiature per il cinema e testi teatrali, dirigendo film, spettacoli e opere liriche. Tuttavia, dopo la morte avvenuta a Roma nel 2005, la sua opera e la sua figura sembrano essere scivolate nell’oblio: i suoi libri sono scomparsi dai cataloghi delle case editrici, i suoi film occupano poco spazio nei manuali di storia del cinema, i suoi testi teatrali di rado vengono riportati sulle scene malgrado la loro modernità stilistica e formale, le sue regie liriche non sembrano più attrarre l’attenzione di alcuno. Non è il primo artista a essere dimenticato, forse la sua estrema versatilità, l’inesauribile curiosità e il successo costante che hanno accompagnato le sue prove d’autore restano tuttora un problema per una ricerca critica che tende di frequente a porre etichette, liquidando un itinerario artistico con vaghe accuse di estetismo. Malgrado ciò, rimane vivissima nello spirito di chi i testi di Patroni Griffi li ha frequentati la sensazione di essere di fronte al compagno di avventure di un Jean Genet o di un Tennessee Williams, capace di infondere quel complesso di inquietudini esistenziali e morali tipiche di un’epoca di transizione e quindi così pertinenti anche per il nostro tempo. È in un suo romanzo della piena maturità, La morte della bellezza del 1987, che confluiscono le due immagini di bellezza a cui accennavo al principio, quella bramosa del Girotti di Ossessione e quella aspra del Mele de Il mare.

Ambientato nella Napoli sconvolta dalla guerra, La morte della bellezza racconta la vicenda di due anime inquiete destinate a trovarsi, a perdersi e a desiderarsi. Lilandt è italo – tedesco, vive appartato in una grande villa in sfacelo che ha ereditato alla morte dei genitori, si mantiene insegnando. Eugenio è un adolescente napoletano immerso nella vita sregolata di una città sottoposta ai bombardamenti e alle conseguenze atroci che la guerra ha comportato. In un contesto quasi spettrale, i due si incontrano e si amano con furia, tra una tragica vivacità da fine del mondo e un dramma operistico tenero e brutale a un tempo, per mezzo di una lingua ricchissima di espressioni dotte e inflessioni dialettali, carica dell’inatteso immaginario di una violenta sensualità. Una lingua lirica e prosaica che condotta fino agli spasimi più estremi è capace di riconsegnare al lettore due immagini di bellezza descritte da Patroni Griffi attraverso una dolorosa visione retrospettiva rischiarata dalla luce malinconica della memoria.   

Alex Marcolla

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