Janet Malcolm: oltre l’etica, il diluvio

Esistono voci ficcanti in grado di far vacillare le pareti del conformismo più celato, sguardi sottili capaci di valicare i veli più minuti dell’ipocrisia che le nostre convenienti narrazioni hanno messo in piedi per preservarci dal cambiamento e quando una di queste voci si incarna nella scrittura insofferente e nervosa di un talento fuori del comune, non si può fare altro che allacciare le cinture di sicurezza e prepararsi a traversare una tempesta. Conobbi una di queste voci grazie alla lungimiranza di uno dei miei scrittori preferiti, Bret Easton Ellis. Questa voce è venuta a mancare a giugno del 2021 e malgrado in Italia pare non se ne sia accorto nessuno, la sua morte ha toccato nel profondo quanti da anni leggevano i suoi saggi vigorosi. Questa voce apparteneva a una straordinaria scrittrice: Janet Malcolm.

Jana Klara Wienerova, questo in origine il suo nome, era nata a Praga nel 1934 da una famiglia di psichiatri di origine ebraica costretti a lasciare l’allora Cecoslovacchia e a riparare negli Stati Uniti allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Cresciuta nella movimentata New York dell’immediato dopoguerra, frequentò al principio una scuola d’arte per poi trasferirsi all’università del Michigan dove cominciò a scrivere per due testate interne al campus. Una volta laureata entrò a far parte della redazione del New Yorker, occupandosi in un primo momento di libri per l’infanzia e arredamento, approdando in seguito alle tematiche che più le premevano. Assimilate le linee guida del New Yorker, ebbe modo di sperimentare una scrittura sempre più peculiare e abile nello scandaglio di materie trascinanti, scarnificandole sino alla nudità più chiarificatrice: la psicoanalisi nei suoi rivolgimenti storici e nei suoi portati metodologici spesso tortuosi, i ritratti di celebri artisti mostrati alla cruda luce della quotidianità, l’impatto del mezzo fotografico sui soggetti catturati dall’obiettivo. Argomenti che, oggetto di saggi memorabili pubblicati nell’arco di mezzo secolo, fecero di Janet Malcolm una delle scrittrici americane più rilevanti, premiate e controverse per il suo insolito punto di vista sui temi presi in considerazione.

Janet Malcolm prediligeva la scrittura in prima persona. Studiando il rapporto tra l’io dell’autore e quello dei suoi oggetti di indagine, arrivò alla conclusione che l’io del primo era uno costrutto con poco o nulla a che vedere con la persona che scriveva, una sorta di duplicato artificiale che persino nella scrittura memoriale e saggistica agisce accanto all’io di chi vive nella stessa maniera in cui Superman agiva accanto a Clark Kent. Intrecciando queste notazioni al legame tra scrittore e oggetto della sua indagazione, Janet Malcolm pubblicò il suo libro più significativo, dibattuto alla sua uscita e oggi considerato un classico imprescindibile per tutti i corsi di laurea in giornalismo delle università americane: The Journalist and the Murderer.

Al fondo di The Journalist and the Murderer ci sono un terribile fatto di sangue e una lunga, complicata e molto pubblicizzata sequela di processi che colpirono l’immaginario dell’opinione pubblica americana per almeno due decenni. Nel 1970 il giovane medico dell’esercito Jeffrey R. MacDonald venne accusato del massacro della moglie incinta e delle due figlie piccole. A un passo dal processo, l’allora popolare giornalista Joe McGinniss avvicinò MacDonald per una intervista, ricevendo da quest’ultimo l’incarico di scrivere un libro sulla sua storia con la promessa che una parte dei ricavati avrebbero aiutato l’accusato a finanziare la sua battaglia legale. Ottenuto un ingente anticipo da un editore ma diffidato dal divulgare qualunque informazione sulla strategia difensiva, McGinniss si assicurò la collaborazione del presunto colpevole stringendo con lui un saldo rapporto di amicizia basato sul cameratismo maschile, condividendone le giornate e assicurandogli la propria convinzione circa la sua l’innocenza, salvo poi pubblicare un libro che presentava MacDonald come colpevole fin dalle prime righe. MacDonald fu condannato all’ergastolo e dal carcere fece causa a McGinniss. È sulla relazione tra queste due persone che si innesta la riflessione provocatoria sull’etica giornalistica al centro del saggio di Janet Malcolm.

Anticipato in due parti sul New Yorker nel 1989, il libro di Janet Malcolm è un accurato esame sulla possibile linea di demarcazione della moralità e sugli esiti dello spostamento di quei confini nella pratica della scrittura di inchiesta. Prendendo l’avvio dal caso MacDonald – McGinniss, Janet Malcolm sostenne che il giornalista si era convinto della colpevolezza dell’imputato già al loro primo incontro. Apparendo dal vivo come un personaggio carismatico, MacDonald sarebbe stato l’esemplare protagonista di un libro in puro stile A sangue freddo. Nondimeno, così come McGinniss non era Truman Capote, altrettanto MacDonald pareva perdere sulla carta tutta la sua vividezza. Per restituirgli nerbo, McGinniss lo ammantò di una ponderosa coltre composta da una nutrita sfilza di trattati psichiatrici e sociali in voga. In tal modo, MacDonald risultava il colpevole da manuale pur avendo aiutato con le sue dichiarazioni McGinniss a scrivere un libro che nelle intenzioni avrebbe dovuto scagionarlo. Questo fu per Janet Malcolm il peccato morale di McGinniss, fingere di credere nell’innocenza del suo soggetto per incastrarlo. Attorno a questa colpa insostenibile Janet Malcolm tesse una rigorosa contestazione al complesso della pratica giornalistica, includendo il suo medesimo lavoro di saggista, interrogandosi sui possibili scenari di quel superamento dell’etica e sul diluvio che ne potrebbe conseguire, arrivando con amaro e forse cinico realismo alla conclusione che corrisponde all’incipit del suo libro:

“Every journalist who is not too stupid or too full of himself to notice what is going on knows that what he does is morally indefensible”.

Alex Marcolla

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