Chi è stato adolescente a cavallo degli ultimi due decenni del secolo scorso ricorderà di certo Enrico Ghezzi e Vieri Razzini. Chi poi da appassionato di cinema come me è nato e cresciuto in un piccolo centro di provincia nel quale l’unica sala esistente si trovava nelle salde mani di un parroco di non ampie vedute, sa benissimo che per assistere a film che avessero a che fare con un firmamento estraneo al cortile di casa aveva come unica possibilità Fuori Orario il sabato notte su Rai 3. Fu per l’appunto uno di quei sabati notte che cominciai la visione di un film destinato a schiudere nuovi varchi tra le esili pareti del mio immaginario. L’inizio non sembrava promettente, nondimeno adagio mi ritrovai rannicchiato in un angolo del divano abbracciando stretto un cuscino con lo sguardo del tutto puntato su un ragazzo che sembrava bruciare per l’urgenza di vivere e di emanciparsi dalle strettoie della sua epoca. Interpretato da un giovanissimo Gary Oldman, quel ragazzo si muoveva in una Londra turbolenta tra i tardi anni ’50 e la prima metà dei ’60. Il film era Prick Up Your Ears, lo aveva scritto Alan Bennett basandosi su una biografia e la regia era di Stephen Frears, tra i pochi autori che nel decennio dominato da Reagan e dalla Thatcher aveva proposto un cinema della e per la realtà. Bennett e Frears diventarono in breve tra i miei più assidui amori di adolescente, ma fu la storia di quel ragazzo a rivoltarmi come un uragano. Questo perché quel ragazzo leggendario era esistito davvero e aveva messo sotto sopra con i suoi lavori il teatro del suo tempo. Quel ragazzo tale sarebbe rimasto in eterno a causa di una assurda e precoce morte. Quel ragazzo si chiamava Joe Orton.
Nato a Leicester nel 1933 da una famiglia della classe operaia, John Kingsley Orton – per tutti solo Joe – fu costretto a lasciare gli studi ancora adolescente a causa dell’asma e a impiegarsi per dare una mano in casa. Fu verso i 16 anni che cominciò il suo interesse per il teatro, dapprima come spettatore e in seguito partecipando a vario titolo alle produzioni delle compagnie locali. Mentre attendeva il responso per una borsa di studio che aveva richiesto alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra, approfondì la pratica drammaturgica, si impegnò in letture che gli permisero di colmare le lacune dovute alla carenza della sua istruzione e comprese in via definitiva di voler fare il drammaturgo maturando quelle idee che nel decennio seguente sarebbero confluite in opere teatrali destinate a scuotere la scena inglese prima e il resto del mondo dopo. Ottenuta la borsa di studio, si trasferì a Londra dove alla RADA conobbe Kenneth Halliwell, l’uomo destinato a segnare la sua sorte. Di sette anni più grande rispetto a Orton, Halliwell era un aspirante attore non brillantissimo e di famiglia più che benestante. I due divennero prima amanti e poi compagni, andando a vivere assieme molto presto. Terminata la scuola si separarono per intraprendere una breve gavetta nei teatri di provincia e una volta tornati a Londra, supportati dai soldi dell’agiato Halliwell e dagli assegni di disoccupazione che arrivavano a Orton, tentarono la fortuna senza successo scrivendo a quattro mani una serie di romanzi bizzarri. Ispirati alla scrittura dialogica dell’eccentrico Ronald Firbank, questi romanzi convinsero Orton a lasciare i progetti di lavoro in coppia per buttarsi a capofitto nella stesura di testi drammatici. L’esordio sulle scene con Entertaining Mr. Sloane nel 1964 e il successivo Loot del 1966 trasformarono Joe Orton da oscuro ragazzo di provincia a caccia della fama in piena Swinging London a stella di prima grandezza del nuovo teatro inglese. Seguirono ancora una manciata di opere scritte nel mezzo di una urgenza creativa e di vita che pareva essere un infausto segno premonitore. Mentre la sua risonanza cresceva da Broadway al resto del globo, una mattina d’estate del 1967 un Halliwell geloso del suo successo e angosciato dal timore di perderlo, massacrò Joe a colpi di martello e si tolse la vita con una overdose di barbiturici, ponendo fine nel sangue a un vissuto che aveva infiammato la scena artistica di un decennio scosso da esiti con cui stiamo facendo i conti ancora oggi.

Scritto nel 1963, portato in scena grazie ai soldi di un gigante della vecchia guardia teatrale come Terence Rattigan, diventato un film nel pieno della stagione del Free Cinema, arrivato sui nostri palcoscenici solo nel 1985 grazie alla regia di Piero Maccarinelli, Entertaining Mr. Sloane costituisce il primo grande successo di Joe Orton e al contempo l’opera che meglio ne esemplifica la caratura innovativa e per molti aspetti rivoluzionaria. Nella Londra vista attraverso gli occhi di Orton, troviamo il giovane e fascinoso Sloane che dopo aver ucciso un fotografo per recuperare certe foto compromettenti si nasconde prendendo in affitto una camera ammobiliata in un anonimo sobborgo londinese della media borghesia. Qui troverà il vecchio e quasi cieco Kemp, il suo irrisolto figlio Ed e Kath, sorella un poco spenta e sul viale del tramonto di Ed. Mentre Kath manifesta quasi all’istante un intenso desiderio per Sloane, Ed instaura con lui una stretta amicizia virile trattenendo a forza quella che in realtà è una repressa attrazione sessuale. Quando Kemp riconoscerà in Sloane l’uomo che tutti cercano per la morte del fotografo, il giovane lo ucciderà prima di essere denunciato mentre Ed e Kath finiranno con l’accordarsi per godere a turno delle sue grazie. Sloane accetterà molto volentieri la situazione e restando impunito continuerà a vivere in quella casa.
Nato dal miracoloso crocevia tra un Beckett ilare cantore dell’assurdo e il crudo sadomasochismo di Artaud e Genet che si fondono con gli interni prigione asfissianti di un Francis Bacon, Entertaining Mr. Sloane è un cortocircuito ininterrotto di battute beffarde in grado di ribaltare le convenzionali idee sul potere e i suoi tetri guitti, di riaffermare l’impossibilità della giustizia in questo come nell’altro mondo, di liquidare le narrazioni consolatorie delle religioni e le corrive credenze sulla morte intesa da Orton soltanto come ultima fermata di un viaggio spesso poco confortevole, di sicuro non scelto. Joe Orton è stato il macabro cantore di una condizione umana tragica e irreversibile, rappresentata tramite l’uso sapiente di farse nerissime che spingevano lo spettatore a ridere rabbrividendo, rivelandosi in questi tempi oscillanti tra ansie da prestazione e disperazione nichilista un nostro contemporaneo dal ghigno ancora freschissimo. In fin dei conti fu proprio Harold Pinter che pronunciando l’elogio funebre di Joe una mesta mattina di quell’estate del 1967, definì il suo più caro amico: “a bloody marvellous writer”.