La scomparsa del mondo contadino, “entromondo” sacrificato sull’altare dell’industria culturale

Esiste, a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, un luogo che pullula di poesia prima ancora che di storia, etnografia e antropologia. È la Casa Museo di Antonino Uccello, poeta siciliano. Amo definirlo poeta non perché scrisse dei versi, cosa che pur fece, ma perché intrise la sua vita di poesia, se è vero che poesia significa innanzitutto poiesis, creazione. Quest’uomo, nato nel 1922, non si limitò ad assistere inerme alla scomparsa delle lucciole e al sorgere del nuovo fascismo, che è il modo in cui Pasolini definì il nuovo potere dei consumi, ma fece di tutto per salvare il mondo contadino che vedeva estinguersi per mano di un potere totalitario e totalizzante. Ecco sorgere questa Casa in cui si salvavano non solo i resti di un mondo da cristallizzare nella memoria (quelli che oggi definiremmo reperti etno-antropologici), ma i mestieri, gli usi e i costumi che, con quel mondo, stavano scomparendo. Una Casa viva, non un museo. E a tenerla viva erano il sogno e la speranza, che ben presto, ahimè, si tramutarono in illusione infranta.

La rivoluzione antropologica che travolse il nostro Paese negli anni Sessanta non fu un incidente, ma il risultato di spietati e sanguinari giochi di potere prima ancora che di scelte politiche scellerate.

All’indomani della Seconda Guerra, fu in Sicilia che si decisero i destini degli italiani negli anni a venire. E fu in Sicilia che l’equilibrio geopolitico vide infrangersi il sogno di una cultura mediterranea dall’identità forte.
Il movimento contadino, unito nel Blocco del Popolo, vincitore delle elezioni regionali del 1947, fu poi sconfitto dalla Democrazia Cristiana alle elezioni del 1953 in seguito al massacro di decine di sindacalisti e manifestanti, culminato nella strage di Portella della Ginestra, quando, il primo maggio del 1947, il bandito Salvatore Giuliano, armato dalla mafia e da forze statunitensi, sparò su una folla inerme.
I contadini, in quegli anni, dopo secoli di soprusi, chiedevano l’applicazione della riforma agraria, che, attraverso la redistribuzione delle terre espropriate ai latifondisti, li avrebbe trasformati in piccoli proprietari.
La repressione avvenne nel sangue, attraverso l’intimidazione. E la Storia andò diversamente. Una cultura millenaria scomparve. Iniziò l’emigrazione di massa verso il Nord dell’Italia e dell’Europa. I contadini divennero minatori e operai.

Un libro prezioso di uno scrittore poco noto, Entromondo di Antonio Castelli, comprende una sezione, Lettere di deportati della terra (che si aggiunge a Lettura di mani contadine), che è una raccolta di lettere inviate dai contadini emigrati alle proprie famiglie. Si tratta di un libro di una delicatezza unica, frutto della sensibilità poetica di un autore che ha saputo cogliere l’essenza di una civiltà che fu annientata proprio nel momento in cui avrebbe potuto, e dovuto, trovare finalmente riscatto.
Un libro che mi ha commosso.

Il libro, nel 1968, fu presentato da Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo al premio Brancati di Zafferana Etnea. Pasolini e Moravia, invece, proposero Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, che vinse. Sciascia si dimise. Castelli era un uomo schivo, introverso, sofferente e, pochi anni dopo, si suicidò. I due libri rappresentano due visioni del mondo, due letture storiche e poetiche di quegli anni.

Il libro di Elsa Morante è un surrogato di ottimismo instillato dalla capacità dei Felici Pochi di riuscire a cogliere la bellezza. Ricordo che, in una recensione al libro, Pasolini lo definì come un manifesto politico scritto con grazia e umorismo. Con gioia.
Un manifesto politico. Gli scrittori, al nord, erano impegnati in un dibattito politico – culturale vivace sulle pagine delle riviste. Lo stesso Vittorini, emigrato, con il Politecnico era perfettamente inserito in quel contesto al punto che coltivava l’illusione di uno sviluppo industriale a misura d’uomo per la Sicilia e il sud Italia. Illusione che s’infranse in primo luogo con lo scempio del territorio, come dimostrano i mostri che tuttora infestano realtà quali Gela, Augusta, Priolo, Milazzo, Melilli.

E al sud? Al sud si lottava contro la mafia, si moriva di mafia. Erano gli anni della grande speculazione edilizia.

Castelli era estraneo non solo al dibattito intellettuale che si svolgeva al nord, ma soprattutto alla grande industria culturale che si andava affermando e rafforzando. Dalla sua posizione appartata, più di ogni altro aveva trovato la poesia laddove essa dava ancora segnali di vita e vitalità. Lui toccava con mano una realtà in cui era immerso, che conosceva bene. Se la poesia è opposizione, lui si opponeva al potere in modo del tutto naturale: con grazia. Una grazia che era caratteristica dell’uomo prima ancora che dello stile, che nel caso di Castelli era anzi scarno, diretto, denso, tagliente. Uno stile che non concede spazio alle facili lusinghe del colore, perché in esso la luce si coglie nell’opposizione del bianco e del nero.
“Li abbiamo costretti, precipitati fuori dai confini i nostri emigranti. Ed essi, rialzandosi, riconsacrano nella casa, entro le proprie mura, il mondo puro della vita” scrive Castelli. Per tornare, così, da dove siamo partiti: alla casa, alla vita. E a me piace pensare che ancora oggi, nelle case, tra gli affetti veri, si conservi quella vita vera e autentica di cui, troppo spesso, non abbiamo più memoria.

Glenda Dollo

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