Norma per sempre

Gli occhi di nero disciolto nel trucco impastato all’umore, i capelli arruffati dal vento che parla e non smette, una mano tiene invano le ciocche che s’infilano tra le ciglia. Norma per sempre.

Il bianco e nero di un artista ferma un attimo nel tempo tenendolo intatto per sempre. Marilyn è un nome che risuona nel vuoto mentre resistono tenaci sorrisi, niente abiti da diva per me, pullover e pantaloni sono una persona comune, sono Norma come volevo davvero. Quanto di mille atre donne c’è ancora in me. Quanto mi sono cercata riflessa negli occhi degli altri, quanto desiderio ci hanno scorto e quanto mi è bastato. Guardarsi attraverso gli altri per poi cercarmi da sola allo specchio. Quanto l’ho odiato lo specchio e il riflesso che dovevo riconoscere per piacermi veramente. Ma chi del resto, si piace veramente quando è un continuo rincorrere abbracci, l’amore, un figlio, bramando una vita normale. Quante volte ho gridato: “È tutto sbagliato”.

A partire da quando nascevo, un errore nel nome che riportavano male, la prima disattenzione, e poi tutta una vita per catturarla quella benedetta attenzione. La mamma voleva omaggiare le sue attrici preferite quelle due meraviglie di Norma Talmadge e Jean Harlow e qualcuno per sbaglio al mio nome ci aggiunse una lettera in più. Il cognome materno, che mio padre dicevano fosse scappato quando aveva saputo che ero nella pancia di Gladys. La donna che mi dava la vita e poi non poteva tenermi, troppo fragile, instabile. La sua ombra è rimasta poggiata alle mie spalle per tutta la vita, come un eterno peso da reggere insieme alla paura di essere folle, di essere “fuori”, di somigliarle troppo, di essere lei. Colpa sua?

Il girovagare infinito della mia infanzia, di famiglia in famiglia, nelle mani di chiunque, lei parcheggiata in un ospedale psichiatrico, da parte, come si mettono da parte le cose che non servono più. Crescevo come inevitabile è, Norma Jeane, a sedici anni sposavo un vicino di casa più grande di me e tornava imperterrito il: “Tutto sbagliato”, mi dissi poco dopo, che era stato un matrimonio di interesse, disse lui, sopravvissutomi per decenni, che mi aveva amata davvero. Ma è facile amare un mito quando è già mito.

Forse era colpa mia forse ero io a fuggire, a non averne mai abbastanza di tutto. La mia sete di amore, di vita, mi faceva ruotare come una trottola. Norma che lavora, che qualcuno fotografa e tutta la giostra che parte per caso. Uno scatto dopo l’altro, un sorriso dopo l’altro, la direttrice della scuola per modelle mi vede, mi vuole. Mi schiarisce i capelli, mi insegna a truccarmi e a sorridere, a usare la voce: “mai a camminare” dirà. A diciannove anni ero pronta al giro del mondo di incontro in incontro, da Norma a Marylin, il nome scelto per me, costruito su me, il mio agente apprezzava il suono della doppia emme, così Marylin fu Marylin Monroe, il nome di mia madre, il mio nome per sempre.

Pensare che dissero che non ero adatta al cinema: “insufficiente recitazione drammatica”. Ma che ne potevano sapere loro del dramma, della finzione e della realtà? Che ne poteva mai sapere il mondo di me? Di come giravo in tondo cercando una scrittura, di come mi illudessi ogni volta, di come, per pagare l’affitto di casa posavo per 50 dollari per un nudo che poi tempo dopo avrebbe fatto il giro dell’intero universo.

“Gli uomini preferiscono le bionde” le mani che affondano nella “Walk of fame”, i sorrisi sensuali e quei “Diamonds” che diventavano best friends, per me, per tutte le ragazze come me, sole, come me. -È timida, dolce, persino intelligente- questo dicevano di me, la cosa buffa era il tono sorpreso come se non ci si potesse aspettare nient’altro che uno sbattere di ciglia e un incedere di fianchi. In realtà vacillavo su trampoli di gigantesca incertezza, terrorizzata dal palco e ogni volta sfidavo me stessa, così circondata di facce da essere continuamente alla disperata ricerca di un angolo in cui rintanarmi, per trovarmi. Un marito dopo l’altro, divorzi dolorosi poco più dei matrimoni, uomini ossessivi, preda della gelosia, o l’esatto contrario, freddi marmorei come Arthur con cui rincorsi tanto l’idea di un figlio che non nacque mai. Quando l’amore era naufragato tutto sembrò andare in pezzi, anche io. I copioni che scarseggiavano, i ritardi sul set, nessun equilibrio a tenermi legata alla terra. E poi Montand e l’eterna illusione di essere scelta, amata per sempre. E scoprire che un’altra è sempre al mio posto. Forse sono io ad essere sempre nel posto sbagliato. L’ombra di me e lo sguardo perso altrove.

Poi quell’incontro confuso e fatale quando la testa era ormai un divagare di tormento e dolore. La bottiglia, i sonniferi, la salute va e viene. La mente ormai vaga. Intorno, cominciava a crollare ogni cosa tra odiatissime pillole e infiniti bicchieri presenti e pressanti. Momenti incartati che segnano vite, l’imbarazzo generale nella voce che usciva dal corpo componendo il fatidico “Happy Birthday, Mr. President” quell’abito color carne che mostrava al mondo ogni anfratto di me, oramai preda di panico e rabbia nelle notti infinite in cui urlavo alla donna che era sempre al suo fianco che John, il suo John, mi avrebbe sposata. Quanto lo avrei amato, quanto mi avrebbe amato non potrei saperlo, forse come le altre, le tante altre, forse di più. Così facile, se non fosse stato il presidente. Puntavo in alto, fu il pensiero di tutti, prima John poi Bob. Dicevano fossi incinta, e che avessi abortito. Dicevo che avrei sposato un uomo potente e dentro sognavo soltanto un bel patio, un bel libro da leggere, un bimbo che ride, un uomo da amare. Se non fossi stata Marilyn, se lui non fosse stato lui. Faceva un gran caldo quella notte d’agosto in cui il mondo mi voltava le spalle per l’ultima volta.

Racconteranno tante cose di quei giorni, la mia immagine farà il giro del mondo, senza di me. Io Norma, sarò già altrove. Finita in balia delle mani degli altri, di occhi che scrutano e prendono, confondono, nascondono. 40 compresse diceva il dottore e nemmeno un sorso d’acqua. Sono andata via con la testa nascosta al mondo senza spiegare, la cornetta stretta tra le mani ad aspettare una voce e mai una sola risposta. Bye bye baby, vado e carezzo per l’ultima volta lenzuola di seta e il ricordo ormai perso di un amore che forse alla fine di tutto non avrebbe potuto salvare nessuno di noi.

Stefania Castella

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