Se capita di ritrovarsi interi, si chiama amore. È vero. E se l’altro edifica meticolosamente per noi una rete di certezze e stabilità, possiamo riposare i pensieri e rivolgerli verso i nostri sogni. La garanzia che ci catapulta addosso ripara le cicatrici che la vita ci ha tatuato sulla pelle. Ma fino a che punto le attenzioni riservate sono balsamo e da che punto in poi diventano vischio? La differenza non è marginale. Il balsamo accarezza, nutre le cellule ma non soffoca. Ci lascia respirare a pieni polmoni. Il vischio, invece, sequestra, asfissia, incatena. Questo è il limite che detta il confine tra amore e dipendenza emotiva. Tra dedizione e manipolazione psicologica.
Qualche anno fa in palestra incontrai Mara, una donna briosa e simpaticissima. L’empatia fu istantanea e iniziammo, tra un addominale e una corsa sul tapis roulant, a raccontarci di noi. Il particolare che mi colpì subito fu l’entusiasmo impresso nei suoi occhi mentre mi parlava di un certo Luca, con cui aveva una relazione da bel po’. Un uomo straordinario, uno di quelli che ti fa sentire desiderata, mi disse emozionandosi, uno che continua a corteggiarti anche quando la relazione è solida. Un gentiluomo di vecchio stampo, che ti fa consegnare un bouquet di iris a casa e lo fa in un giorno qualunque, che ti prepara una cenetta romantica e ti sfiora il corpo per tutta la notte lasciandoti sulla schiena un tappeto di brividi. Uno che ti sveglia con sapienti baci. Insomma, merce rara. Confesso che le parole di Mara mi scossero. Ero felice per lei e, a dirla tutta, speravo che un giorno tutto ciò potesse accadere anche a me. Nei giorni a venire, questa specie di fiction si faceva sempre più dettagliata e affascinante. Il dopo San Valentino, poi, sferrò il colpo di grazia. La sera prima, mi disse, Luca le fece trovare sul cuscino una rosa che tra i petali nascondeva un anello prezioso, diamanti e acqua marina. Un investimento che, tutto sommato, poteva permettersi per la professione che esercitava. Niente di strano, quindi, se non una massiccia dose di amore fiabesco che, per la proprietà transitiva, vivevo di riflesso anch’io. L’anello, però, era troppo largo per le sottili dita di Mara. Così, corse in gioielleria per farlo stringere. Qualche giorno di pazienza, e il suo anulare avrebbe indossato la promessa di una vita insieme. Così sembrava.
Non vidi Mara quella settimana. Pensai fosse affaccendata per la convivenza che stava organizzando con Luca. Non tornò neanche la settimana successiva. Non sono invadente e rispetto gli spazi altrui ma non ero affatto tranquilla. Nessun messaggio. Nessuna chiamata. Qualcosa non tornava. Forzo la mia natura riservata e la raggiungo a casa. Al citofono non risponde. Eppure la luce della sala è accesa. L’inquietudine si amplifica. Chiedo a un vicino di aprirmi il portone e salgo da lei. Suono il campanello compulsivamente per sfinirla. Sono sicura che sia lì, dietro l’uscio. Al milionesimo tentativo apre e mi crolla addosso. Mi stringe tanto forte da farmi male. “Vedi che la palestra funziona? Che bicipiti!” le dico per esorcizzare e strapparle un sorriso. Ci riesco, in parte, ma è talmente avvinghiata a me che non riesco a staccarla e guardarla bene in viso. Non vuole che lo faccia. Ha lividi sul collo. Un occhio nero. Un dente spezzato. Non dico nulla. Non serve. Ci sediamo per terra, sul tappeto, come due adolescenti. Mano nella mano, ci parliamo senza parlare. I silenzi, a volte, dicono molto più di mille discorsi. L’empatia chiude il cerchio. L’anulare è spoglio del diamante.
Immaginai la dinamica dei fatti: Luca, tornato all’improvviso da un viaggio di lavoro, trova la sua donna senza anello al dito, senza vincolo, senza cartello “proprietà privata”. Così, senza darle il tempo di spiegarsi, di dirgli che era parcheggiato in gioielleria – spiegazioni che, sia chiaro, non siamo tenute a dare e che nessuno può esigere – la colpisce, l’aggredisce. La punisce. La educa. Già. Per alcuni esseri non siamo donne ma argilla da plasmare a loro immagine e somiglianza. Loro, i manipolatori, ci ammaliano con attenzioni esagerate per ammorbidirci, per abbattere le difese, per renderci creta da scolpire a piacimento. A colpi strategici, di regali, carezze, fiori e passione, ci ingabbiano facendoci sentire regine e dee. Protagoniste. Ma di cosa? Di un incubo che, prima o poi, ci toglierà la libertà o peggio la vita. Un disegno, il loro, studiato nelle minime sfumature. Un progetto vigliacco, subdolo, spesso irreversibile. E Mara ne era stata vittima. Una delle tante, troppe donne che ho difeso nei processi.
Molte, hanno perso i battiti. Altre si sono rialzate facendo perno sulla loro autostima. Sono rinate dalle ceneri di un amore malato, anzi, di un non-amore. Un dolore benedetto che le ha scavate per dar loro gli strumenti per riparare gli strappi della vita. Un dolore cui dobbiamo far leva prima che il manipolatore ci risucchi nel suo labirinto e ci spezzi le ali. Un dolore che deve darci la forza di fuggire e di denunciare.