Virginia Woolf, o di come il dolore si diluisce nell’acqua

“Guardare la vita in faccia sempre, guardare la vita in faccia e conoscerla per quel che è. Al fine conoscerla, amarla per quel che è, e poi metterla da parte.”

Parole al vento parole che pesano come sassolini che infili nelle tasche, ti spingono affondandoti in un gorgo a metà strada tra realtà e costruzione. Tra ciò che resta e ciò che si perde, lasciamo tracce di tentativi di farci conoscere, riconoscere. Ciò che può fare colui che scrive è tentare di aggrapparsi alla parola finché può, per poi smettere di opporsi e lasciarsi andare.

Togli pure quel filo d’erba che ti spunta dalle labbra e smetti di guardarmi come se fossi irreale. Ti dico che la amo. Te lo dico mentre il cielo ci illumina gli sguardi che luccicano, come il riflesso dell’acqua che le bagna le caviglie. È bella vero? È bella fuori come è bella dentro, bella com’è bella l’aria che respiro, che passa attraverso le ferite e le lenisce.

Chiudo gli occhi e penso alla libertà, quella che spinge a levarsi dalla scogliera all’acqua, guidati da luci di un faro che si spegne, improvviso si spegne e cala il buio. Non penso al passato che seppe ferirmi, non penso al futuro che nessuno conosce, camminerò per quello che basta, in punta di piedi e così farai tu, unico uomo che poté restarmi accanto. Quanto rumore quel tempo mio caro, quanto rumore faceva la donna nel silenzio che il mondo imponeva. Giravamo il mondo tra noi, tra parole rubate, strappate, stordite di sguardi, il fermento che ad altre non era concesso lo abbiamo agguantato per stringerlo al petto.

Che scandalo amarsi, che scandalo combattere da quest’altra parte. Qualcuno mi dava le spalle, storceva le labbra, una donna vestita da uomo, una donna che parla da uomo, una donna che scrive da uomo, che polvere sotto i tappeti My Darling, è stancante doversi difendere. Puoi leggere quello che ho scritto, fingerò di aver perso gli occhiali. Lo faccio da sempre. Il mondo reclama impone la sua perfezione.

Se io rendo a quel mondo l’immagine amorfa di ciò che per me è solo amore, di mani che toccano e occhi che sfiorano, dita che insinuano ardori che non si comprendono, so che sentirò sguardi fissarmi, stordirmi di nuovo. Sento il dolore, sento le voci, leggo i pensieri attraverso le occhiate, non so come sono ma non dovrei essere quello che sono.

Ho visto mia madre svanire, perfetta di sguardi, fattezze da statua, l’ho vista sfiorire e gravida e stanca che folla di voci giravano in casa, ma quanti eravamo, che vite, che bocche. Le sento le mani che cercano giovani corpi, dov’è mia sorella? Dovevo difenderla e difendere me. Nessuno mi avrà, nessun uomo domani mi farà più male. Mai più del male. Ricordi quel treno? Il rumore assordante, rincorse di prati a confondere fuori, e parole smorzate confuse di voci, dicevi “Mi sposi?” e il rumore del treno copriva la voce, copriva gli intenti ti ho detto di sì, ma tu non mi sentisti, che strano pensarci, adesso pensarci. Adesso che resti, nonostante tutto, nonostante me. Riportami a casa, mio unico amore. Riportami a me. L’ho visto il mio giorno, l’ho visto finire più volte, e ora lo sento ed è come se un ciclo si fosse esaurito, e l’aria stentasse ad entrare.

Non è più tempo, non è più il mio tempo. Ho speso il mio tempo a battere pugni per rompere altissimi muri che opprimono silenziose donne e figli da crescere e uomini da rendere un po’ più felici, ho sempre pensato “non posso così, io non sono così” e non lo sono stata. Le guardo le altre che un po’ mi somigliano e uomini accanto che mai hanno sfiorato, l’amore rivolto dall’altra parte. Le altre le ho scosse o almeno lo posso affermare ho speso la vita per ridare la vita a chi non pensava ci fosse una vita, anche per la donna ci fosse una vita.

Adesso mi stanca, la vita mi stanca e voci mi opprimono e riempiono fogli prima di me, non posso più leggere non riesco più a scrivere stordiscono pure i pensieri più chiari. Rivedo la spiaggia e sento quel vento che spazza i miei lugubri persi pensieri. Chiuderò gli occhi e lo scorrere lento perderà il suo percorso. Raccolgo quei sassi, perfetti liscissimi, li stringo nel pugno, li infilo attentissima, una tasca poi l’altra. Ora è tutto più chiaro, mi avvicino e respiro adesso respiro. Ho descritto la vita, ho descritto esistenze non resta che questo, quest’ultima cosa di cui non scriverò.

“Faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare. Non posso continuare a rovinarti la vita”.

Sento l’acqua sfiorarmi chiudo le ciglia, rivedo l’estate, il tempo felice, caviglie sottili, schizzate, un tempo brevissimo, lì tornerò.

Stefania Castella

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