Note di viaggio dall’Uruguay

Ero di nuovo in quella città degli opposti, solo per ritirare un pezzo di carta del quale io avrei fatto anche a meno. Avevano registrato il saggio in spagnolo presso il registro nazionale e mi era costato 544 pesos – circa 35.000 lire – insieme al mio nome, che nell’elenco degli autori uruguaiani sembrava un po’ fuori posto. Non sapevano neanche scriverlo il mio nome, sostituivano sempre qualche vocale; le lettere a Montevideo hanno il valore dei numeri della tombola.
Alla stazione degli autobus di Tres Cruces vidi una ragazza, aveva stampato in faccia che veniva dai cantegriles; mi passò davanti, così vicino da sentire l’odore della miseria che si portava addosso, aveva un bambino in braccio, lo teneva come uno straccio vecchio della cucina, la testa sembrava un grappolo d’uva che pendeva dal ramo mentre guardava il cielo azzurro e nuvoloso; non piangeva e non rideva. A pochi mesi – mi chiedevo – i bambini non capiscono nulla dei colori e delle nuvole. Avrei dovuto farmi i fatti miei, invece le feci un cenno, indicai la testa di suo figlio, sembrava che si spezzasse da un momento all’altro! Ma lei mi insultò in dialetto e maledisse il giorno della mia nascita e altri dettagli riguardanti mia madre e la mia famiglia. Bentornato a Montevideo, mi dissi.

El Centro de Documentación Nacional era ancora chiuso; arrivano tutti verso le dieci, mi disse il custode. Soltanto lui, che era anziano e aveva l’abitudine di svegliarsi presto come succede a quelli della sua età, era puntuale alle nove, che era l’orario di apertura ufficiale, quello affisso all’ingresso. Lo avevo immaginato, ma non potevo permettermi di giudicare i loro ritardi: può darsi che, per uno strano caso, tutti i figli degli impiegati della biblioteca nazionale avessero avuto problemi al pancino quella mattina e avessero costretto i genitori ad aspettarli già pronti con il loro thermos caldo sotto il braccio e la macchina accesa. Tutto può succedere, per cui è sempre meglio pensarci due volte prima di imprecare davanti a una porta chiusa: non si può mai sapere quale storia c’è dietro una porta.
Nei corridoi del piano terra c’erano i ritratti degli uomini illustri di Montevideo, a decine, e un paio di donne illustri; c’era chiunque, il secolo scorso bastava che ti distinguessi in qualche campo e finivi appeso a quelle pareti. Forse per molti di loro il quadro era già pronto prima che morissero, bisognava soltanto aggiungere la seconda data.
Il mio preferito era Horacio Quiroga, 1878 – 1937, autore di storie d’amore, di morte e di follia, barba e capelli lunghi e folti, morto suicida a Buenos Aires, maledetto in vita come i protagonisti dei suoi racconti, che avevo letto e amato come si legge e si ama una donna piena di silenzi e sfuggente quando le parli di futuro. I suoi occhi erano tristi e saggi come tutti i morti, ma anche sereni come se al momento dello scatto già sapessero di possedere qualcosa di eterno e, senza volerlo, trasmettessero a noi, per fortuna ancora vivi, quel sentimento di pace che si sarebbero guadagnati.
Il rumore del traffico su 18 de Julio – che tutti chiamavano Diez y ocho, e basta – mi ricordava Napoli, ma un migliaio di altre cose in quel Paese mi ricordavano Napoli e le ragioni per cui l’avevo lasciata: adesso ripensavo alla pizza e agli spaghetti con le vongole, le due cose che mi mancavano di più, e non sapevo se sentirmi in colpa o ritenermi privilegiato perché non appartenevo più a nessun posto e mi piaceva pensare che la mia casa fosse nei miei libri.
Due impiegati davanti all’ascensore parlavano di una legge promulgata in Uruguay da qualche tempo, una legge secondo la quale la responsabilità penale in un luogo di lavoro era dei dirigenti e quindi, in caso di incidenti, questi erano passibili di denuncia. Quella mattina era successo qualcosa in un ufficio dell’Intendencia – il Comune – dove un impiegato, che aveva denunciato quattordici volte lo stato disastrato del proprio posto di lavoro, era caduto e, per di più, era morto. In quel caso, il responsabile era il sindaco; ma come si fa a arrestare il sindaco? si chiedeva la gente davanti agli ascensori. E in effetti, adesso che ci ripenso, non arrestarono nessuno.
Mi sembrava di rivedere la parte peggiore del mio Paese e la rivedevo nelle vetrate sporche della sala lettura. Anche quella, ancora chiusa. Ero un po’ esasperato quella mattina, per nessuna ragione grave, soltanto perché ogni tanto giocavo ad arrabbiarmi, giacché non sapevo arrabbiarmi sul serio.

Ricordo che quel giorno incontrai gente rara, persone che presto o tardi avrei messo in un romanzo, è così che funziona, osservazioni superflue, avrei vissuto molto meglio finora senza perdermi nei loro mondi strani, sarei meno grasso e non avrei questi dolori dappertutto.
Il custode della biblioteca parlava trascinando le parole una dentro l’altra, aveva i baffi folti e i capelli bianchi spettinati. Strisciava i piedi come se portasse le pantofole, piedi e parole trascinati insieme. Io qui sono l’anfitrione, mi disse, e mi lasciò passare per primo, percorremmo insieme il corridoio con i ritratti, gli uffici erano vuoti, i cestini per le cartacce erano tutti in fila davanti alle porte, appena svuotati, pronti per essere riempiti di nuovo, aspettavano, avevano la pazienza tipica degli oggetti. Quanti anni ha? chiesi all’anfitrione. Oggi ne compio sessantanove! Allora, buon compleanno. E lei, che cosa porta in questa cartella? I miei appunti e altre carte, anche una fotografia. Lei è un poeta? Io? no, non credo. E che cos’è, allora? Non lo so, non mi piace dare una definizione alla gente. Ma è qui per registrare una poesia? No, si tratta di un saggio sulla felicità, risposi. Si aquí dentro Usted lleva una poesía, le deseo mucho éxito a partir de este día, mi disse, me lo disse davvero, non me la sono inventata la rima e tutto il resto.

Era l’ultimo giorno in quella città di pazzi. Sulle sedie accanto al distributore del caffè c’erano uomini soli con le facce tristi che guardavano nel nulla e giocavano con le monete; dalla sala studio arrivavano le voci basse dei ragazzi che mi ricordarono i bei tempi dell’università. Mentre uscivo dalla biblioteca con i miei fogli in mano, sentivo che stavo uscendo da Montevideo. Ripensavo alle immagini che avevo visto in quei due mesi – non in centro; del centro non m’importava nulla – e che avrei descritto appena ritrovata la tranquillità e l’anonimato necessari: gli odori di cui tutti parlano e la puzza che non descrive nessuno; avrei parlato di tutto ciò che c’era di sbagliato in quel Paese, della miseria che si vedeva e si sentiva da lontano in tre quarti della città, perché quello che in televisione non si può vedere è il fetore della plastica bruciata al sole, nelle cloache che correvano ai lati della strada, piene di immondizia. Fuori dal centro non esistevano le fogne, la gente aveva il proprio pozzo nero davanti alla casa. Io volevo prendermela con il sistema, perché non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che in quelle stesse baracche ogni famiglia avesse IPhone e televisori al plasma: perché rinunciavano a mangiare e a tenere puliti i bambini ma si indebitavano per tutta la vita presso gli istituti di credito che abbondavano lungo Diez y ocho e nei centri commerciali? E perché nessun giornalista parlava della puzza che c’era in quella città?
Eda Simeone, la protagonista del romanzo che avrei scritto una volta tornato a casa, diceva sempre: la miseria puzza, non importa se qui o in un altro Paese più alla moda quando si parla di terzo mondo e si gioca con la pietà di chi guarda la tv; la puzza della miseria, caro Francisco, è uguale dappertutto.

Franco Malanima

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