Il narratore e la memoria. La sfida di somigliare a se stessi nella trilogia di Tahar Ben Jelloun

Nelle Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin descrive Angelus Novus, un quadro di Paul Klee da cui trae spunto non solo per il titolo della sua opera, ma per significare l’importanza della memoria e il sentimento del tempo.

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è quella tempesta.

È un’immagine poetica, questa di Benjamin, che richiama la distinzione pasoliniana tra sviluppo e progresso. Il progresso è una tempesta che spinge verso il futuro al di là di ogni volontà. Solo rivolgendo lo sguardo al passato il progresso è possibile.
In un altro saggio dell’opera, dedicato alla figura del narratore, Benjamin sottolinea come la memoria sia la facoltà epica per eccellenza, che permette, da un lato, di appropriarsi del corso delle cose, dall’altro, di conciliarsi con il loro scomparire. Mnemosyne, infatti, per i Greci era la musa dell’epica. A questo punto, l’autore opera una distinzione tra narrazione e romanzo, la cui radice comune è rintracciata nell’epos. Mentre la narrazione è fondata sulla memoria in senso lato, il romanzo trae linfa dal ricordo. La narrazione, secondo Benjamin non è propriamente un genere letterario, ma il discorso del narratore, che egli descrive come persona di “consiglio”. Il narratore è colui che viene da lontano, un portatore di saggezza in grado, mediante l’arte del racconto, di far parlare la propria esperienza così che possa essere utile per gli altri. L’arte di narrare presuppone un rapporto artigianale con la materia oggetto del racconto, vale a dire la vita umana, così da plasmare le esperienze (proprie e altrui) in modo unico e irripetibile.

Il narratore entra tra i maestri e i saggi. […]. Il suo talento è la sua vita; la sua dignità quella di saperla narrare fino in fondo. […]. Il narratore è la figura in cui il giusto incontra se stesso.

La narrazione è ciò che ci riconcilia con il passato, o meglio, con il sentimento del tempo. La letteratura è un patrimonio inestimabile di grandi narratori che, di generazione in generazione, di epoca in epoca, si trasmettono e trasmettono le proprie esperienze.
In un tempo in cui siamo fagocitati da una miriade di informazioni, i grandi narratori rischiano di passare inosservati. Eppure sono loro a vigilare sullo stato di salute della nostra società. Con lo sguardo rivolto indietro alle brutture della storia, sono loro che spingono verso un progresso distinto dal semplice, cieco e incurante sviluppo.
Tra i narratori contemporanei, includerei certamente Tahar Ben Jelloun, scrittore marocchino trasferitosi a Parigi, dove vive attualmente. La sua trilogia composta dai libri Creatura di sabbia, Notte fatale e A occhi bassi, affronta una questione complessa sia sul piano storico e culturale, che su quello psicologico, personale e umano. Zahra, protagonista della narrazione, è Mohamed Ahmed per volere del padre, che dopo sette figlie femmine, per avere un erede, decide di crescere e considerare l’ottava come un uomo. Il racconto, ambientato nel Marocco degli Anni ’40 e ’50, quello in cui l’autore è cresciuto, è un complesso sovrapporsi di piani narrativi e punti di vista. Non una vicenda personale su uno sfondo storico, bensì una verità misteriosa e multiforme che si innesta in una civiltà composita. Il libro non è finalizzato alla sola denuncia di una società patriarcale e maschilista, ma alla narrazione del tema di un’identità inventata e mutilata. È un racconto corale e onirico, una storia in cui la cultura maghrebina non è descritta o indagata, ma narrata. Se ne coglie il senso più oscuro e profondo e, nei successivi capitoli della trilogia, è messa a confronto con quella occidentale. L’identità come presupposto di giustizia e dignità.

Essere, semplicemente essere, è una sfida.
Assomigliare a se stessi non è forse diventare diverso?

E questa diversità, che è la ricchezza di ognuno, oltre che la base stessa di ogni identità, l’attuale cultura di massa violenta e annienta.
L’Occidente, che si erge a baluardo di valori democratici e pluralisti, può davvero dirsi progredito? Non è forse di solo sviluppo che si tratta? Rivolgiamo lo sguardo al futuro o, nel migliore dei casi, all’eterno presente in cui siamo immersi, fagocitati. La memoria storica e culturale è confusa con anniversari, celebrazioni o, nel migliore dei casi, sbiaditi ricordi. Resta la letteratura, e all’interno di questa, la grande arte della narrazione, a svegliarci dal profondo letargo in cui siamo precipitati. Del resto, a che serve la cultura se non a migliorarci umanamente?

Glenda Dollo

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