La responsabilità dell’intellettuale nella società dell’opinione

Scriveva Walter Benjamin che non esiste documento di cultura che non sia anche documento di barbarie. La storia è stata scritta dai vincitori, lasciando i più nella condizione di subirla. Il documento storico non si discosta troppo dal mondo fittizio creato dalla letteratura, con la differenza che la letteratura, essendo arte che discende dal bisogno innato nell’uomo di raccontare storie, far vivere miti, può essere paradossalmente più documentale di ogni storiografia, più vera della realtà costruita dagli storici.
Non possedere mezzi espressivi atti a esprimere il proprio punto di vista per consegnarlo ai posteri, non avere voce nel grande affresco degli eventi raccontato da chi nasce in una condizione di privilegio, è un fatto con cui spesso la letteratura si è confrontata.
La stessa letteratura, che, come si accennava, affonda le sue radici nella tradizione orale e nella necessità di tramandare storie, immaginare, comunicare e raccontare, è stata, per molto tempo, appannaggio di pochi. Chi non possedeva, per nascita o diritto, la possibilità di esprimersi per mezzo della scrittura, era estromesso dall’élite culturale.
Proprio all’interno di tale élite si sviluppò la consapevolezza di possedere un privilegio. Nacque la figura dell’intellettuale engagé. Da Zola a Picasso, gli artisti avvertirono l’esigenza di abbattere la barriera che li separava dalla società civile e di abbandonare la torre d’avorio in cui per secoli si erano arroccati.
Quello dell’intellettuale impegnato si è trasformato, nel corso del Novecento, in un vero e proprio mito. Non vi era intellettuale che non fosse impegnato quantomeno in una discussione che riguardasse il suo impegno… L’ideologia comunista, e nella fattispecie il marxismo, soprattutto gramsciano, avevano acceso un dibattito intenso su riviste e fogli di ogni genere in cui i letterati si interrogavano sul destino della lingua, sul ruolo ad essi assegnato in seno alla società, sul rapporto con l’industria. Fu Vittorini che, sebbene preda dell’abbaglio di un possibile sviluppo industriale del meridione sul modello prospettato da Olivetti, dalle pagine del Politecnico rivendicò la sua libertà creativa di uomo, letterato e intellettuale nella celebre polemica con Togliatti, quando si disse contrario a impegnarsi per suonare il piffero della rivoluzione. Fu in difesa delle peculiarità proprie della letteratura che Vittorini insorse.
La letteratura, infatti, nelle possibilità infinite concesse dall’immaginazione unita all’espressività e referenzialità della parola, si rivela non solo più filosofica della filosofia e più pragmatica di ogni presunta scientificità della storiografia, ma anche indipendente rispetto a ogni ideologia. E nonostante questo, e forse proprio in virtù di questa indipendenza, non esiste nella società umana intesa nella sua accezione più ampia, transnazionale e transculturale, un’esposizione e presa di coscienza più lucida e precisa dell’idea di giustizia e di quella di diritto di quanto accada in letteratura.
La letteratura è sempre politica, nel senso che nasce in un contesto e ad esso si rivolge. L’impegno dell’intellettuale non esiste se non nella misura in cui esso è avvertito come connaturato alla sua stessa condizione. Nell’attuale società dell’opinione, più che di impegno parlerei di responsabilità, affinché, almeno oggi, epoca in cui il tasso di alfabetizzazione si è alzato e la letteratura è spesso equiparata a un bene di consumo, si producano documenti di cultura che, in futuro, non possano essere identificati come documenti di barbarie.
Scriveva Calvino che la speranza da lui riposta nel futuro della letteratura risiedeva nella sicurezza che ci fossero cose che solo la letteratura è in grado di dare con i suoi mezzi specifici. E, infatti, nonostante tutto, si continua a narrare.

Glenda Dollo

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