“I had a farm in Africa, at the foot of the Ngong Hills.”
Quando ho ascoltato per la prima volta queste parole avevo quindici anni. A pronunciarle era la voce suadente di Maria Pia Di Meo che doppiava una intensa Meryl Streep protagonista nel ruolo di Karen Blixen del film La mia Africa di Sidney Pollack. Nulla sapevo allora della Blixen e della sua vita e ancor meno ero a conoscenza della sua divina capacità di raccontare storie stregando anche il lettore più apatico o sbadato, soprattutto mai avevo sentito nominare ne avevo letto il suo libro più celebre, quello che nel corso dei decenni aveva destato la sorpresa e la lode illimitate di innumerevoli lettori comuni e di altrettanti celebri scrittori, guidando Karen Blixen a un passo dal premio Nobel per la letteratura. Quel libro pubblicato nel 1937, del quale avevo intercettato senza saperlo l’incipit sopracitato, si intitola La mia Africa e sebbene non sia stato il primo della Blixen che io abbia letto in seguito, è stato di certo quello che ha consacrato in via definitiva l’amore senza condizioni che da oltre tre decenni nutro per questa insuperabile artista. A permettermi una prospettiva più completa, partecipe e cristallina della vita e dell’opera di Karen Blixen fu però il libro di un’altra prodigiosa scrittrice. Mi riferisco alla vivida biografia che Judith Thurman ha dedicato all’autrice di La mia Africa: Isak Dinesen: The Life of a Storyteller.
Biografa tra le più autorevoli e dal 1987 critica culturale di punta del New Yorker, Judith Thurman è nata a New York nel 1946. Dopo la laurea alla Brandeis University e un debutto come poetessa, la Thurman si è trasferita in Europa perfezionando quella formazione che di lì a pochi anni avrebbe messo al servizio di saggi dallo stile unico. Rientrata in patria cominciò a collaborare con Ms, la da poco nata rivista cofondata da Gloria Steinem, introducendo attraverso i suoi insoliti interventi poetesse sconosciute al pubblico americano – dalla francese Louise Labé alla messicana Juana Inés De La Cruz – di cui ha tradotto i versi per il Penguin Book of Women Poets. Al contempo ha insegnato presso il Brooklyn College, facendo oggetto delle sue lezioni scrittrici singolari come Gertrude Stein, Jean Rhys e Karen Blixen. Fu dopo aver tenuto una serie di seguite lezioni su quest’ultima che, a metà degli anni ’70, la St. Martin’s Press convinse la Thurman a dedicarle una biografia. Seguirono otto anni di ricerche ai limiti dell’assillo, di visite nei luoghi in cui aveva vissuto l’autrice e di riletture accurate delle sue opere, pervenendo allo studio della lingua danese nel quale la Thurman si impegnò con accanimento per addentrarsi del tutto nello spirito della Blixen. Furono anche anni di afflizioni sconfinate per Judith Thurman, che per la prima volta dovette affrontare il terrore della pagina bianca e incapace come era di scrivere per lunghi periodi lasciò l’insegnamento e organizzò in via definitiva la sua vita sul libro al quale stava lavorando. Riemerse da questo isolamento quasi assoluto nel 1982, quando l’editore che glielo aveva commissionato poté pubblicare infine Isak Dinesen: The Life of A Storyteller, vincitore di un National Book Award per la migliore biografia l’anno successivo e impiegato come base per il film su Karen Blixen che Sidney Pollack girò poi e in cui la stessa Thurman figurava addirittura come produttrice associata. Dopo più di un decennio al New Yorker, Judith Thurman prese un congedo per scrivere una nuova biografia che avrebbe avuto come protagonista Colette, altra grandiosa figura della letteratura europea. Con la pubblicazione di Secrets of the Flesh: A Life of Colette nel 1999, per il quale si aggiudicò altri insigni riconoscimenti, e dopo aver ripreso il suo ruolo di critica della cultura per il New Yorker, la statura di Judith Thurman si è ampliata di pari passo all’affermazione dei suoi libri, garantendole premi reputati come la medaglia francese di Cavaliere delle Arti e delle Lettere.
Una biografia non è un semplice avvicendarsi di fatti e date, piuttosto è una interpretazione di quei fatti tramite la raffigurazione del soggetto preso in esame al fine di scandagliarne la sua più autentica natura. Karen Blixen nacque nel 1885 a una trentina di chilometri da Copenaghen. A nove anni perse l’amatissimo padre nel modo più tragico: Wilhelm Dinesen, proprietario terriero e politico danese, si suicidò. Riconobbe già da bambina la propria capacità di ammaliare chi le stava intorno grazie al dono supremo del cantastorie e verso i vent’anni cominciarono a uscire i primi racconti pubblicati sotto numerosi pseudonimi, quasi a volersi nascondere per lasciare che l’attenzione fosse rivolta solo alla sua voce per mezzo di una pratica che la rese ancor più impenetrabile e l’accompagnò nella vita come nell’arte fino alla fine. La partenza per l’Africa assieme al cugino Bror suo promesso sposo e, dopo il matrimonio dell’anno seguente, l’acquisto di una fattoria dove coltivare caffè ai piedi delle colline N’Gong vicino a Nairobi, segnano una svolta che delimiterà la sua intera esistenza. Gli anni che seguirono vedranno il divorzio da Bror dopo che i tradimenti di lui avevano condizionato un matrimonio basato soltanto sull’amicizia e sul desiderio di lei di acquisire il titolo di baronessa e saranno funestati dalla sifilide trasmessale dal marito. Prima della fine di quella estrosa unione e del fallimento dell’impresa di caffè a causa della crisi economica, ci sarà l’inquieta passione per Denys Finch Hatton sulla quale il film di Pollack, tradendo le fonti a cui dichiarava di ispirarsi, ricamerà fin troppo trasformandola in un melodramma poco convincente. Dopo il ritorno in Danimarca nel 1931 la vita di Karen Blixen sarà quella di una donna restia a mostrarsi in pubblico, tenace fino all’ultimo ma legata in modo stretto alle memorie adulterate in continuazione della sua vicenda africana e in primo luogo sarà dedicata fino al termine dei suoi giorni alla pratica della scrittura: dalle Sette storie gotiche del 1934 a Ehrengard uscito postumo nel 1963, passando attraverso una varietà senza fine di storie tra le quali si colloca La mia Africa, un perturbante libro – maschera nel quale con il pretesto dell’autobiografia la Blixen ci racconta l’Africa che ha visto senza accennare se non con vaghezza alla propria vita. La morte la coglierà nel 1962 mentre ormai incapace di scrivere per via degli effetti della sifilide era intenta a dettare l’ennesima storia alla sua segretaria.
Isak Dinesen: The Life of a Storyteller è un possente ritratto d’artista. Judith Thurman non fa uso di strumenti ora logori come la psicologia per ritrarre Karen Blixen e privilegiando i testi approda mediante una fine sensibilità letteraria a un possibile quanto problematico disvelamento del mistero che si cela dietro a Isak Dinesen. Per questo l’indagine della Thurman indugia sulla tendenza al mascheramento attraverso svariati pseudonimi – di cui quello maschile di Isak Dinesen era il più adottato – impiegata dalla Blixen non solo nell’arte del raccontare ma nella stessa quotidianità. Ne emerge una talentuosa e oscura finzione scenica che mescola megalomania e crudeltà e procede senza tregua alla ricerca pervicace di una libertà assoluta quale sola via di fuga al pericolo costante del nulla che la Blixen avverte come costitutivo della vita ordinaria. A tratti la stessa Thurman cede all’ossessione quando ritrae questo puntiglioso perdersi che la Blixen sperimenta in Africa e poi ripresa la dissezione quasi spietata ce la mostra dal punto di vista dei familiari e degli amici, per approdare a un senso di pace nella descrizione del matrimonio con il cugino Bror e del rapporto con Finch Hatton. Si percepisce l’amore della Thurman per Karen Blixen, ma ciò non le impedisce di restituirla senza ricorrere all’agiografia: ne emerge un carattere affascinante, certo difficile e spesso sgradevole, una donna prigioniera di un’epoca nella quale si sentiva a proprio agio ma che altrettanto detestava con fermezza preferendo vivere nei suoi personali universi paralleli. Da qui la tendenza all’autoillusione e all’inganno quali armi necessarie alla sopravvivenza psicologica e non semplici strumenti della sua arte di scrittrice. Accanto a opere memorabili, tutto ciò ha prodotto una spessa cortina fumogena che, come ben ha constatato Judith Thurman, rende difficoltoso distinguere ciò che nella vita della Blixen è accaduto in realtà e ciò che al contrario è il frutto a momenti grottesco della sua sconfinata immaginazione. È in questo corpo a corpo quasi trascendentale che Judith Thurman riesce a portare alla luce da un sostrato di discordanze sovente antipatiche le composite fragilità della Blixen, irradiando quel coraggio incendiario che il padre dell’autrice danese bambina le ripeteva essere il potere segreto delle donne.