Le notti ferine di Cyril Collard, angelo selvaggio sotto il cielo di Parigi

Non molto tempo fa, in uno di quei rari ma cruciali momenti di passaggio che incontriamo sul nostro percorso, mi sono imbattuto in un testo teatrale che mi ha riportato in modo brusco alla giovinezza. Nel 2018 un cineasta talentuoso nonché magnifico scrittore come Christophe Honoré, nella sua commedia-tributo Les Idoles immaginava una sorta di purgatorio, nel quale si radunava un composito gruppo di artisti che si era imbattuto nella stessa morte. Fui scosso nel leggere alcuni di quei nomi perché le loro opere avevano dato sostanza al mio immaginario, corroborato la mia identità e nella loro irrequietezza avevano trovato una inedita pace, parte dei miei affanni di ragazzo. Tra questi, Hervé Guibert e Bernard Marie Koltès occupano un posto speciale nella mia memoria di adulto e il loro lavoro si rivela tuttora suggestivo ben oltre i confini francesi, ma un altro nome mi bruciò sulle labbra appena lo sussurrai a me stesso e si trattava di Cyril Collard.

Tutti erano morti per Aids in un momento storico in cui questa sindrome aveva generato una brutale sequela di metafore moralistiche arrecando allo spirito lacerazioni più radicate di quelle causate dalla stessa malattia. Soprattutto Guibert e Collard avevano fatto oggetto del loro lavoro quel male che li stava annientando nel pieno della vitalità. Mentre il teatro di Koltès è assurto alla condizione di classico grazie alle sue robuste figure simboliche e l’opera di Guibert articolata tra letteratura, fotografia e cinema è oggi venerata dalle generazioni di lettori più giovani e da scrittori come Jean-Baptiste Del Amo, su Cyril Collard ancora amatissimo in patria, pare essere calata una pesante coltre di silenzio all’estero. Eppure permane tra le figure di quella generazione sparita per troppa urgenza di vita quello che persino ora amo di più, perché malgrado la morte precoce sento vivissimo in me.

Cyril Collard è stato un uomo dai molteplici talenti. Figlio di un ingegnere atipico, quel Claude Collard cintura nera di judo e campione europeo che guidò con piglio carismatico il Comitato Olimpico Francese, e di Janine Choquier, tra le più celebri mannequin d’Oltralpe, Cyril Collard era nato a Parigi nel 1957. Studente brillante, riuscì a diplomarsi in anticipo e indeciso su quale strada prendere scelse di seguire le orme paterne, iscrivendosi alla facoltà di ingegneria dell’Università di Lille. Fu nel pieno dei movimentati anni ’70 che tra la rivelazione della musica di David Bowie e Lou Reed, letture disordinate ma intensissime di poeti e scrittori irregolari dello spessore di Rimbaud e Genet e innamoramenti repentini per un cinema ancora vitalissimo, decise di affiancare agli studi di ingegneria la frequentazione dei corsi di cinematografia dell’università, contribuendo con racconti e impressioni autobiografiche alla locale rivista studentesca. Il decennio si apprestava a terminare, cominciarono i viaggi in giro per il mondo, il sopravvenire di una irrequietudine e l’esigenza di una libertà smisurata che lo accompagneranno per il resto della vita assieme alla presa di coscienza della sua bisessualità che di lì a poco sarebbe deflagrata in pagine e immagini rapinose. Il rientro in Francia dopo tanto peregrinare coincise con l’abbandono degli studi e la creazione di un gruppo rock, soprattutto si accordò con un incontro di fondo che gli avrebbe chiarito l’ispirazione in balia di un ribollire di intenti che non trovavano uno sbocco inequivocabile. Maurice Pialat era già un cineasta affermato, poco sofferto per la sua scarsa inclinazione a scendere a compromessi con il potere, un uomo della generazione del padre di Cyril che aveva realizzato una manciata di film singolari dopo una dura e lunga gavetta. Malgrado il carattere arcigno di Pialat, tra lui e Collard nacque una risoluta dimestichezza che porterà Cyril a diventare il suo assistente alla regia per i film girati a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Seguirono tempi febbrili che lo vedranno scrivere e dirigere nel 1983 Alger la blanche, un cortometraggio che andrà a un passo dal vincere un premio César, e l’esordio come romanziere nel 1987 con Condamné Amour, che lo consacrerà a pieno titolo artista abile nel padroneggiare più strumenti espressivi per raccontare con riuscite inattese un’epoca esacerbata, colma di contrasti non sanati e con la smisurata sciagura dell’Aids consumata tra silenzi fragorosi e barbari terrorismi. Quel dramma si abbatterà su di lui poco dopo la pubblicazione del romanzo e sarà la diagnosi di sieropositività a trascinarlo verso una nuova coscienza di sé, sviando un cammino artistico che sembrava tracciato. Concluse che avrebbe reso pubblica la sua malattia e che sarebbe stato un testimone di ciò che stava accadendo in Francia e nel mondo tramite la sua arte. Les nuits fauves, il romanzo autobiografico nel quale riportava la sua volontà caparbia di non soccombere all’Aids, uscì nel 1989. Il film tratto dal romanzo, che Collard scrisse, diresse e interpretò, uscì nel 1992. In mezzo ai due vi fu una lotta senza tregua, intrisa di atroci contrasti per i contenuti dei suoi lavori e una attenzione crescente da parte di quei ragazzi che si sentivano coinvolti appieno da quella narrazione. L’8 marzo 1993 Les nuits fauves entrava nella storia dei César vincendo per la prima volta al contempo i premi come Miglior Film e Migliore Opera Prima. Quella sera la protagonista del film, una appena ventenne Romane Bohringer, ritirava quei riconoscimenti tra le lacrime. Cyril Collard si era spento a Versailles tre giorni prima. Aveva 36 anni.

Les nuits fauves è raccontato in prima persona da un ragazzo di trent’anni che vive a Parigi nella seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso. Nel riferire la sua storia il protagonista non nasconderà al lettore la sua sieropositività, il suo amore per i ragazzi – e in particolare per Samy – e l’infatuazione improvvisa per la giovanissima Laura, con la quale farà l’amore la prima volta senza rivelarle la sua condizione. Questo ragazzo che nel corso del libro non tradirà mai il suo nome, tanto che la sua voce ci sembrerà sempre e solo quella dell’autore, nella versione cinematografica diventerà Jean e sarà lo stesso identificabile con Collard, il quale vista la rinuncia per timore del ruolo da parte di attori già celebri, deciderà di interpretarlo di persona siglando in via definitiva una palese sovrapposizione tra arte e vita. In entrambe le opere assistiamo da un lato al legame tra Jean e Samy, fratellastri e amanti, in cui Jean, direttore della fotografia di successo, teme per le derive fasciste di Samy invischiato sempre più in quella guerra tra poveri che era a un passo dall’esplodere nei sobborghi della capitale francese, e dall’altro a quello tra Jean e Laura, che diventerà sempre più oppressiva quando scoprirà l’esistenza di Samy e la sieropositività dell’amato. Quando la situazione sfiorerà il precipizio, Laura verrà internata dalla madre in una clinica e la relazione si interromperà in modo subitaneo. Solo molto dopo, appreso che la ragazza non ha contratto il virus dell’Hiv e vive una nuova relazione e che forse i suoi tentativi di salvare Samy da pericolose derive estremiste sono andati a buon fine, Jean farà pace con se stesso, pronto a ricevere con lucida serenità qualunque sorte gli riservi il futuro.

Les nuits fauves fu scritto con tutta la saldezza e la premura di un giovane uomo messo dinanzi a un destino irriducibile e a oltre trent’anni dalla sua pubblicazione e a trenta esatti dall’uscita del film che Collard ne ha tratto, il culto che le generazioni nate dopo la sua morte riservano al loro autore palesa quanto le esigenze private alla base dei lavori dell’artista francese non fossero le sole forze da cui lui ha tratto ispirazione. La sua scrittura letteraria e filmica in apparenza viscerale e immediata si rivela in realtà ricca di un sostrato possente e rigoglioso in cui l’avventura individuale tocca vaste e dolorose oscurità e nell’identico lampo la luce solare dello spirito, allacciando il particolare al saldo approdo con l’universale che ammette chiunque all’ascolto condiviso con i personaggi di Collard. Così lo riscontriamo quel richiamo al fauvismo pittorico del titolo nella precisa scelta di parole e immagini dai colori primari, ferine e abbacinanti ma parimenti pastose e colme di quel rapporto con la realtà visibile che le allontanano del mero autobiografismo, al punto da partecipare all’interrogativo dello stesso Cyril Collard:

“Mais était – ce l’écriture qui avait provoqué la souffrance, ou bien la douleur qui avait engendré les mots?”

Alex Marcolla

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