Colui che non ha mai provato un malessere per la sua vita digitale scagli il primo smartphone! Siamo tutti combattuti, a livelli diversi, tra la dipendenza da click e il fantasma dell’offline. E come se non bastasse, siamo tutti dilaniati tra i discorsi utopistici del “technological fix” (giusto per riprendere il termine coniato da Evgeny Morozov) a dire di coloro secondo i quali Internet è il business – e le imprecazioni apocalittiche – sostenute da chi ormai fa dell’“anti tecnologia” un sacerdozio e della disconnessione, una religione.
Come trovare un’armonia tra l’online e l’offline? Come stabilire un equilibrio tra il virtuale e la vita reale? Ci vorrebbe un coach. Neutro, imparziale. Sia chiaro, né un geek né un menestrello. E questo coach ideale potrebbe essere Marcel Proust.
Che nessuno pensi che Proust ci dispensi un elogio della lentezza e della disconnessione. O che sia terrorizzato dalla velocità e dalle innovazioni della nostra epoca. Quella che ha vissuto lui – tra la fine del Diciannovesimo Secolo e l’inizio del Ventesimo – ha visto in realtà dei cambiamenti ben più dirompenti della nostra: l’irruzione nella vita quotidiana della bicicletta, dell’elettricità, del telefono, del cinema, della radio, dell’aeroplano, dell’automobile… Sembra poco.
Proust era lontano dall’essere refrattario alle innovazioni: ci sono ad esempio suoi passaggi squisiti sulla sconvolgente virtualità del telefono… Inoltre, alla fine della sua vita, ha conosciuto una sorta di “vita virtuale”, quella in cui scriveva dal suo letto affrontando solo raramente la “vita reale” – mettiamo le virgolette a questi due termini perché la distinzione per Proust non ha alcun senso – per verificare i dettagli della documentazione come oggi un romanziere fa con Google: per catturare la precisa qualità di una luce sulla facciata di un immobile haussmanniano, per investigare la pronuncia esatta di una frase in italiano grazie a un amico che lo tirava giù dal letto alle quattro di mattina, o per immergersi nell’odore del sottobosco del Bois de Boulogne…
Inoltre, Proust non rifiutava per partito preso di essere sui social network. Possiamo dire che ne ha conosciute tutte le sfumature in anticipo, grazie alla sua assidua frequentazione dei salotti mondani. Ci consiglierebbe semplicemente di prendere Twitter, Instagram o Facebook per quello che sono, ossia – come i salotti – dei luoghi di socializzazione fittizia in cui tutto è un miraggio (un “amico” su Facebook come in un salotto letterario non è necessariamente un amico), in cui tutto è “segno” – anche un semplice like – e bisogna essere capaci d’interpretarlo nei suoi tanti significati.
Aveva intuito l’effetto delle “bolle di filtraggio” – scoperte nel Ventunesimo Secolo da Eli Pariser – che contribuiscono inevitabilmente alla mentalità da clan sui social: proprio come coloro che fanno parte del piccolo nucleo di amici di madame Verdurin e nel corso del romanzo si trasformano in una setta inaccessibile. Come possono essere a volte i social network.
Il nostro ci direbbe anche che la memoria sparpagliata sul web – attraverso gli “instant” e le “story” – non è che una memoria morta. Molto meno efficace di una madeleine inzuppata nel tè (o i ciottoli irregolari di un cortile, o un asciugamano umido, o un profumo, o una melodia…) per rievocare il ricordo di un istante dimenticato. Il vero ricordo è involontario: rinasce quando l’oblio fa bene il suo lavoro; non per la permanenza e il martellamento delle foto e dei video sui social, che restano sulla superficie dei momenti vissuti, incapaci di catturare la vera essenza di un ricordo…
Proust non sarebbe affatto bluffato dalla capacità di un click di consegnarci ogni cosa, e subito. Questa ubiquità che esalta alcuni, lo lascerebbe indifferente. Per lui il click sarebbe un ammazza-desiderio: con lo scopo di avvicinare senza sosta l’oggetto del nostro desiderio, il click in realtà ci allontana dal nostro desiderio per l’oggetto.
Così come ci consiglierebbe di rifiutare la tirannia degli algoritmi che duplicando senza sosta il nostro desiderio proponendocene una copia, finiscono per soffocarlo; piuttosto di fare come Charles Swann nel romanzo, andare alla scoperta di “ciò che non fa per noi”.
Proust rifiuterebbe per esempio ogni raccomandazione di Netflix, Amazon, o di Meetic e Grindr…
In quanto alle fake news, con cui ci abbevera Internet, Proust non ne sarebbe stupito. Ci spiegherebbe anzi che queste non sono una novità e che sono inevitabili. Il nostro rapporto con la verità è sempre stato complesso, ci ha sempre fatto adattare i fatti in funzione del nostro sistema di credenze – e non l’inverso. Insomma, siamo attirati dai fatti che ci convengono, che siano veri o meno. Ce ne consegna una prova sociologica eclatante attraverso un’evoluzione delle prese di posizione dei suoi personaggi che variano nel corso delle pagine davanti allo scalpore e ai colpi di scena dell’Affare Dreyfus. Quanto meno un caso esemplare che si dovrebbe insegnare oggi e che ci chiarirebbe il funzionamento dei social network.
Una cosa è sicura, Proust non ci prenderebbe in giro per il tempo sproporzionato che passiamo di fronte al monitor o allo smartphone. Perché “il tempo perduto” per lui non è solo quello passato – questa è la lettura limitata che si fa spesso della sua opera –, ma è anche e soprattutto quello che si perde. La procrastinazione costituisce l’essenza narrativa stessa de Alla Ricerca del tempo perduto: è a lei infine che dobbiamo il privilegio di poter leggere. Poiché racconta la storia di una vocazione letteraria che ha bisogno di tempo – fin troppo, secondo alcuni – per svilupparsi. Con il risultato, in un twist finale, che il tempo perduto si trasforma in tempo ritrovato, ritrovando a sua volta tutto il suo senso grazie alla scrittura.
Allora il solo consiglio che Proust ci darebbe forse sulla nostra vita digitale sarebbe che, se è inevitabile che il tempo si perda – vivere alla fine è perdere il proprio tempo con o senza lo schermo –, è compito nostro stare attenti che almeno non sia privo di senso.
Paul Vacca
Titolo originale: Comment proust peut sauver votre vie numérique
Traduzione dal francese: Franco Malanima