Un cespuglio selvatico di capelli rossastri e un prezioso miscuglio di timidezza e ribellione, è l’immagine di una giovanissima Kerry Fox che nel 1990 si diffuse di colpo nei cinema di tutto il mondo. Si trattava di An Angel at My Table, il film di Jane Campion che di lì a poco avrebbe conquistato pubblico e critica, e si ispirava alla trilogia autobiografica della massima scrittrice neozelandese del Ventesimo secolo, quella Janet Frame che appunto grazie al trionfo del film della Campion sarebbe passata dall’attenzione di un gruppo sparuto di critici appassionati allo slancio di una vasta platea di devoti lettori. Solo poi Jane Campion racconterà il primo incontro con i libri della Frame, e in particolare con quel Owls do cry pubblicato nel 1957 tra ammirazione di pochi e polemiche da parte dei troppi conservatori che vedevano in quel libro una decisa rottura con le abitudini certe ma ormai stantie della letteratura neozelandese dell’epoca. Ciò che i più accorti videro fu il tratteggio di ampio respiro di una storia divisa tra echi faulkneriani e tocchi da fiaba gotica condotto dalla mano sicura di una ragazza di appena ventitré anni. Più tardi fu evidente la trasfigurazione immaginifica di intensi tratti autobiografici, espressa grazie al magico dono di un rapporto propizio con le parole e il loro mistero, che si rivelò in pieno a Jane Campion tramite i tre volumi della biografia che Janet Frame scrisse e pubblicò negli anni ‘80 del secolo scorso. Il film che Jane Campion diresse a partire da quei tre libri rese in immagini miracolose le parole di Janet Frame, immortalando un vissuto schivo e complesso ma vivido come pochi altri sia sul piano umano che su quello espressivo, il vissuto unico di Janet Frame.
Raccontare la propria vita per attraversarla con lo sguardo e tentare così di comprendere quale mistero si cela dietro quel velo che il tempo va tessendo un poco per volta, questo il tentativo messo in atto da Janet Frame con i tre volumi raccolti sotto il titolo di An Angel at My Table. Nata a Dunedin in Nuova Zelanda nel 1924, Janet Frame era figlia di genitori di origine scozzese, un padre ferroviere abituato a frequenti trasferimenti tutte le volte che veniva costruita una nuova stazione tra la costa e l’entroterra e una madre con cinque figli che lo seguono negli spostamenti attraverso un paese inesplorato. Malgrado l’estrema indigenza in cui versavano, i ragazzi crescevano circondati dall’affetto dei genitori in un ambiente intellettualmente parecchio vivace, i libri non mancavano e la curiosità di tutti stimolava una creatività manifesta anzitutto nell’amore per le parole e l’arte di raccontare storie. Timidissima e sensibile, già portata a guardare oltre la semplice realtà visibile, Janet Frame si sentì da subito diversa rispetto ai suoi coetanei, ma ciò non le impedì di completare gli studi e ottenere l’abilitazione all’insegnamento. Una errata e frettolosa diagnosi di schizofrenia interruppe di colpo il sogno di Janet di insegnare e internata in un manicomio, fu sottoposta per i quasi otto anni successivi a trattamenti forzati che prevedevano l’elettroshock. Il mondo reale così come lo conosceva cambiò, ma non smise mai di vedere e capire, soprattutto si impegnò a fondo nella scrittura e il risultato furono una serie di racconti che pubblicati le salvarono la vita. The Lagoon and Other Stories uscì nel 1951 e fu oggetto di immenso stupore. Poco prima i medici del manicomio avevano sentenziato che l’unica soluzione a quello che si ostinavano a considerare un male era la lobotomia. La pubblicazione di quella smilza raccolta di racconti mostrò a tutti, medici inclusi, che Janet Frame non era schizofrenica. La sua inclinazione per le parole le permise di abbandonare il manicomio e intraprendere quel percorso che l’avrebbe trasformata nella più importante scrittrice neozelandese moderna del ‘900. Owls do cry nel 1957 fu il suo primo inatteso romanzo che attingeva a piene mani all’infanzia e alla famiglia di Janet e in particolare rielaborava in immagini di straniante fiaba la morte per annegamento dell’amatissima sorella Myrtle. Nel 1961 toccò agli anni della sua degenza in manicomio di essere rifondati per mezzo di una prospera inventiva nel libro Faces in the Water. L’entusiasmo con il quale i lettori più avveduti accolsero questi primi lavori la spinse a insistere nella sperimentazione del linguaggio, portandolo fino agli estremi delle sue possibilità. Cominciarono i viaggi in giro per il mondo, nuovi vivacissimi incontri ampliarono il suo immaginario e le pubblicazioni dei suoi libri si susseguivano senza sosta. A Londra, diversi anni dopo quel ricovero forzato in patria, in un contesto terapeutico ben più preparato e privo di pregiudizi moralistici, si sottopose in maniera volontaria a un nuovo consulto che smentì e ribaltò del tutto quella diagnosi di schizofrenia che l’aveva portata a un passo dalla fine. Non era malata, al contrario era dotata di uno sconfinato universo interiore che aveva condotto con il sommo piacere della scoperta in virtù della scrittura. Rientrata a Dunedin si gettò a capofitto nella stesura delle sue memorie, tre volumi che uscirono a uno a uno tra il 1982 e il 1984 e solo in un secondo tempo per via della popolarità del film di Jane Campion, furono raccolti in un unico volume diventato oggi un classico della letteratura. Trasferitasi alla periferia della città in una roulotte accanto alla abitazione di una delle sorelle, continuò a scrivere attingendo ai lampi della sua prodigiosa immaginazione fino alla morte avvenuta nel 2004.
An Angel at My Table traccia il corso della vita di Janet Frame dalle prime reminiscenze dell’infanzia fino al suo ritorno in Nuova Zelanda nel 1963. L’intento ufficiale della Frame è quello di spazzare via i logori miti romantici sulla creazione letteraria legati alle limitanti interpretazioni della sua opera basate sugli anni da lei trascorsi in manicomio. Ne risulta un viaggio nel mondo interiore di una scrittrice che più di ogni altra cosa racconta il farsi stesso delle immagini che scaturiscono dalla sua mente e in misura uguale le parole si traducono nella storia di come sono venute al mondo nel preciso momento in cui è venuta al mondo anche Janet. Con una libertà formale che riallaccia a sé in modo acceso l’esempio dell’amata Virginia Woolf, Janet Frame ci conduce sul cammino che ha portato alla nascita della sua scrittura, rievocando la formazione complessa e non esente dal dolore della mente di una bambina nata in una famiglia povera materialmente ma ricchissima di parole, una infanzia nomade al seguito del padre ferroviere trascorsa a elaborare miti e leggende dedicate agli antenati scozzesi dei genitori, una famiglia quella della Frame che sa di comunità per iniziati a un raro culto misterico capace di farli accedere a momenti dell’essere sconosciuti ai più. Tutto ciò avrà due brusche fratture: l’annegamento della sorella Myrtle raccontata con intensità senza pari ricorrendo alle immagini dell’acqua che ribalta la morte e permette il costante rinascere, e la segregazione in manicomio che provoca una interruzione solo momentanea di quell’intreccio che è la sua vita, una matassa che il talento di Janet riesce a sbrogliare in rivoli illimitati conferendole un nuovo e più allusivo significato. Prima dei viaggi ci sarà l’apprendistato come scrittrice in una piccola casa isolata abitata da Frank Sargeson, padre della letteratura neozelandese moderna, uomo poco incline alla socialità. Sono queste tra le pagine più efficaci dell’autobiografia della Frame. Tra i due nascerà una salda amicizia nutrita dai silenzi e dalla reciproca stima, una sintonia tra spiriti affini esclusi dall’ufficialità dell’epoca: Janet additata come pazza e Frank reietto in quanto omosessuale. Un rapporto il loro destinato a durare fino alla morte di Sargeson nel 1982 e mai interrotto durante l’intenso peregrinare della Frame fuori dalla Nuova Zelanda. La memoria dei luoghi e delle relazioni si cristallizza nell’immagine sfaccettata di una donna e di una artista singolari e continuo fino all’ultima pagina è l’interrogativo della Frame su come si possa giungere alla verità riferendo la propria vicenda umana. Solo al termine di questo viaggio irripetibile che è la lettura di An Angel at My Table possiamo forse intravedere un accenno di risposta al dubbio di Janet Frame: una scrittura capace di dare forma al mistero dell’esistenza è la sola verità che ci è concessa.