Pablo Neruda un lucido stupratore nel suo racconto autobiografico

Ho spesso scritto e parlato d’amore. L’ho vissuto e lo vivo, lo provo e l’ho provato. Come tutti. Ne ho letto, moltissime volte, nelle più svariate declinazioni. Gli amori cavallereschi mi hanno sempre affascinato assai più di quelli mitologici e romanzeschi; come anche i canzonieri. Ma se mi fosse dato di fare un solo nome, al di sopra di tutti i molteplici possibili, per incarnare l’ideale poeta dell’amore, senz’altro sceglierei di fare quello di Pablo Neruda, non foss’altro per la ragione che i suoi testi fremono e tremano, accogliendo il mistero dell’amore incarnato nel cielo e racchiuso nelle radici.

Nell’amore come acqua di mare ti sei scatenata:
misuro appena gli occhi più ampi del cielo
e mi chino sulla tua bocca per baciare la terra.

La scavatrice d’occhi che gioca col sole, la donna della vita, per Neruda è Matilde Urrutia. Ha amato e cantato molte donne prima di lei: Delia, Rosaura, Josie Bliss… Per arrivare a lei, probabilmente. Matilde è un’iniezione di vita nel cuore di uno dei poeti della storia della letteratura in cui la vita ha vibrato con maggiore intensità. La vita, con tutte le sue passioni e contraddizioni, è la linfa che attraversa l’opera del grande poeta cileno. Le odi sono il frutto di questa disperata vitalità.
La politica non è che una delle forme in cui l’amore si manifesta. L’amore per gli ultimi, per i minatori, i taglialegna, per gli sfruttati, incarnato innanzitutto nella voce dei poeti popolari e solo in seguito identificato in una ideologia, è stato alla base dell’esilio del poeta e della contraddizione, politica e umanissima, tra individualismo e collettivismo, che si scioglie facilmente qualora si abbandoni l’ideologia dominante. Perché l’ideologia non è che un sistema di idee, che però rischia di divenire fuorviante quando si fossilizza in dogma politico. E Neruda, dopo l’esilio, dopo Le residenze, con Stravagario compie l’estremo atto di fede nell’amore, compie la sua abiura, staccandosi definitivamente dal Partito per appoggiare Salvador Allende.
Tutto bene fin qui. La mia scelta è coerente, la mia lettura appassionata. Eppure un’ombra grava sulla vita e la memoria del poeta cileno: quella di aver compiuto uno stupro e di averlo anche raccontato, con estrema disinvoltura, nel libro dedicato alle sue memorie, Confesso che ho vissuto, pubblicato postumo.
Da Neruda poeta dell’amore a Neruda lo stupratore il passo è breve, brevissimo anzi. Le femministe cilene si sono ribellate e hanno alzato la voce. Isabelle Allende, invece, ha affermato che, nonostante le sue debolezze, fu un grande poeta in grado di consegnare al mondo capolavori.
Neruda, morto in circostanze misteriose all’indomani del golpe di Pinochet, lascia in eredità non una confessione di vita e amore per le persone e le cose, ma il racconto di uno stupro.
Tale episodio è incluso nella sua autobiografia e non ha sollevato alcuno scandalo se non sulla scia del movimento Metoo. Non è seguito alcun dibattito. Troppo ingombrante la figura, troppo rappresentativa di un’ideale di vita, letteratura e politica, troppo legata al destino del popolo cileno.
Il racconto si sviluppa con una tale disinvoltura da non lasciare dubbi sulla sua veridicità. È il racconto di un uomo che considera la donna in questione come un oggetto sessuale. La vittima è descritta come una statua e di se stesso afferma di provare disprezzo. È raccapricciante e assolutamente verosimile in un contesto in cui la cultura maschilista e sessista è al suo apice. La violenza si svolge a Ceylon nel 1929:

Dal retro della casa, come una statua scura che camminasse, entrò la donna più bella che avessi fino a quel momento visto a Ceylon, di razza tamil, della casta dei paria. Era vestita di un sari rosso e dorato, della tela più ruvida e grossolana. Alle caviglie, sui piedi scalzi, portava pesanti braccialetti. Ai lati del naso le brillavano due puntini rossi. Saranno stati fondi di bicchiere, ma su di lei parevano rubini. Si diresse con passo solenne verso il gabinetto, senza neppure guardarmi, senza curarsi della mia esistenza, e scomparve col sordido  recipiente sulla testa, allontanandosi col suo passo da dea. Era così bella che malgrado il suo umile lavoro mi lasciò turbato. Come se si trattasse di un animale scontroso, venuto dalla giungla, apparteneva ad un’altra vita, ad un mondo separato. La chiamai senza risultato. Poi qualche volta, sulla sua strada, le lasciai qualche regalo, seta o frutta. La donna passava senza sentire né guardare. Quel tragitto miserabile era stato trasformato dalla sua oscura bellezza nella cerimonia obbligatoria di una regina indifferente. Un mattino, deciso a tutto, la afferrai per un polso e la guardai faccia a faccia. Non c’era nessuna lingua in cui potessi parlarle. Si lasciò guidare da me senza un sorriso e ad un tratto fu nuda sul mio letto. La sottilissima vita, i fianchi pieni, la traboccante coppa del seno, la rendevano identica alle tradizionali sculture del sud dell’India. Fu l’incontro di un uomo e di una statua. Rimase tutto il tempo con gli occhi aperti, impassibile. Faceva bene a disprezzarmi. L’esperienza non venne poi ripetuta.

No, Neruda, non fu l’incontro di uomo e di una statua, ma di una donna chissà quante volte abusata, usa alla violenza, e di un essere, non della giungla, luogo troppo nobile, ma di questa società e cultura che ancora perpetra tali atrocità nel più assoluto silenzio.

Glenda Dollo

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