Gli algoritmi, macchine acchiappa-trend? Un mito. Non è la formula della hit che fa il suo successo, ma il suo successo che rivela la formula. La prova è la cantante americana
E se l’intelligenza artificiale (IA) avesse invaso anche la musica? Dobbiamo aspettarci presto dei veri robot al posto dei cantautori? È una delle domande che lo storico israeliano Yuval Noah Harari si pone nel suo ultimo libro, 21 Lezioni per il XXI Secolo, in cui affronta la questione dell’IA rispetto alla produzione umana. E più specificamente rispetto alla musica e alle emozioni che provoca. Dopotutto, scrive, le emozioni non sono un fenomeno “mistico”, ma il risultato “di un processo biochimico”, e non sorprenderebbe se un giorno “gli algoritmi fossero capaci di comprendere e manipolare le emozioni umane” meglio dei più grandi artisti.
Harari resta prudente. Avanza sulle uova, al sicuro dietro lo scudo del condizionale. È più diretto riguardo ai cosiddetti “successi planetari”. Secondo lui, “sfruttando delle enormi banche dati biometriche raccolte da milioni di persone, l’algoritmo saprebbe quali bottoni biometrici schiacciare al fine di scatenare un successo mondiale che farebbe elettrizzare tutti come dei pazzi in discoteca”.
Ma il fantasma della ricetta della “hit perfetta” non è una novità. Dietro ogni produttore c’è una strega dormiente e ogni ingegnere che crea una formula ha sempre sognato la formula magica.
La mitologia pop ha visto streghe di tutti i tipi: Berry Gordy nel ’59 con la Motown, poi Phil Spector, George Martin, Quincy Jones, Stock Aitken Waterman, i Daft Punk, Mick Ronson, David Guetta, eccetera.
Difatti Harari non ha scoperto nulla. Questa tendenza a mettere la musica in un’equazione, per raggiungere il Graal della musica pop perfetta è un vecchio ritornello. L’idea che alla base della hit perfetta ci sarebbe una formula algoritmica, anche. Perché la musica è stato il primo settore artistico a essere interessato dal digitale. Negli Anni ’70, molto prima dell’arrivo dei giganti di Internet, i sintetizzatori fanno la loro apparizione nello studio di registrazione, poi è la volta del sampling, le drum-machine, i programmatori, i vocoder e anche l’auto-tune, un programma che corregge la voce.
La canzone totalmente digitalizzata, è diventata un supporto facilmente scomponibile dagli algoritmi. Harari predice ciò che già esiste. Parla un po’ più del futuro quando afferma che “gli algoritmi non dovrebbero subito surclassare Tchaïkovski” ma che “sarebbe auspicabile che superassero Britney Spears”. E ancora, non ci stupisce il solito ritornello, secondo noi, falso, che si basa in fondo su una visione erronea della creazione artistica – seppur popolare e commerciale – e di conseguenza, di Britney Spears.
Senza voler offendere “il pensiero più importante del mondo” (secondo le Point), si riconosce qui un argomento tipico del salotto commerciale: ciò che è popolare sarebbe per essenza più semplice da produrre rispetto a ciò che è elitario. Britney Spears sarebbe più facile da imitare rispetto a Tchaïkovski? Un’illusione. Perché non esiste nulla di più sofisticato dell’apparente semplicità di un riff di qualche accordo o di una gimmick.
Con gli algoritmi siamo davanti al caso della scimmia saggia secondo cui con il tempo sufficiente – centomila anni, forse – una scimmia che schiaccia a caso su una tastiera sarà capace di ottenere il testo dell’Amleto. Ciò non toglie che resterebbe comunque incapace di capire che si tratta dell’Amleto. Con il deep learning, una macchina potrebbe sicuramente comporre I Gotta Feeling o magari il riff di Highway to Hell. Ma sarebbe capace di riconoscerli in quanto tali?
L’idea che “questo non può che funzionare” è una post-razionalizzazione. La hit programmata è un mito che trascura un dettaglio fondamentale: le varianti della percezione del pubblico, quella dialettica indecifrabile tra la proposta e la sua ricezione. Non è la formula della hit che fa necessariamente il successo, ma il successo che rivela infine la formula dentro di lui.
Nel caso di Britney Spears, dire che i suoi due più grandi successi sono “irrazionali” è un eufemismo. Baby One More Time e Toxic non erano neanche destinati a lei in origine. Il primo, che ha venduto più di 500.000 copie in una settimana, è una successione di qui pro quo, imposti da una giovane interprete sconosciuta contro il rap, la tecno e il rock grunge che dominavano quel decennio; uno strano mix di pop, funk e melodia dolce-amara in stile Abba; una genesi erratica fatta di su e giù tra gli Stati Uniti e la Svezia, paese d’origine del produttore Max Martin, e l’intuizione di Britney Spears che, dall’alto dei suoi 16 anni, ha pensato e supervisionato la clip in cui appariva vestita da collegiale.
Cinque anni più tardi, nel 2003, stesso miscuglio stravagante del destino. La sua carriera è in crisi, Britney cerca l’hit. È allora che concepisce Toxic, come un’improbabile equazione: ovvero un pezzo scritto da un’inglese e tre svedesi, patchwork di elettro-dance-pop, una specie di colonna sonora di un James Bond che si è perso a Bollywood, registrato tra Stoccolma e Hollywood, poi remixato a Stoccolma, destinato in origine a Kylie Minogue, che l’ha rifiutato, e poi arrivato per caso nell’iPod di Britney Spears, che se n’è appropriata.
Dubitiamo che un giorno gli algoritmi possano essere così genialmente casinisti. E che Harari non ce ne voglia, ma le canzoni di Britney Spears hanno più arte alchemica di un processo biochimico. Valgono più le qualità naturali di chi le interpreta che qualsiasi Intelligenza Artificiale. Dopotutto, è logico che i sostenitori dell’IA vedano il futuro dominato dalle macchine poiché leggono il presente in maniera meccanica.
Titolo originale: Britney Spears plus forte que l’IA ?
Traduzione dal francese: Franco Malanima