Rita Atria, o di come ama una vera siciliana

“Forse un mondo onesto non esisterà mai
Ma chi ci impedisce di sognare
Forse se ognuno di noi prova a cambiare
Forse ce la faremo”

Ci sono storie di mafia che straziano il cuore, storie di ribelli per amore. Penso a Felicia Impastato, a Rosa Schifani, a Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, sindacalista ucciso dalla mafia. Penso, soprattutto a Rita Atria.
Nata e cresciuta a Partanna, nel Belice straziato dal terremoto del ’68, tra Trapani e Palermo, Rita era figlia di don Vito Atria, un mafioso vecchio stampo, uno di quelli legati ancora al mito dell’onore più che a quello del denaro, un esponente della mafia rurale sottomesso al potere degli Accardo. Mediazioni, guardiania, abigeato, controllo sulle terre e gli animali, su qualche esercizio commerciale e qualche lavoro pubblico. Uso a inchini, baciamano e benedizioni, Vito Atria vede sgretolarsi il mondo in cui aveva sempre vissuto a Partanna da protagonista, quando i giovani iniziarono a spingere per mettere mano al traffico della droga. Si trattò di un cambiamento epocale per Cosa Nostra, una vera e propria rivoluzione gerarchica, geografica e valoriale, che sostituiva il prestigio personale con quello derivante dal possesso di denaro. Vito Atria fu trovato morto sul marciapiede in mezzo al suo sangue nel novembre del 1985, mentre a Roma si celebrava il maxiprocesso. Rita aveva dieci anni.
Nel vuoto affettivo che la circondava, si aggrappò al fratello Nicola, di dieci anni più grande. Non ebbe mai un buon rapporto con la madre, che a suo dire sfogava sui figli la rabbia e il rancore accumulati negli anni per i tradimenti del marito.
Nicola aveva sposato Piera e lavorava nel bar dei genitori di lei dopo che la madre gli aveva negato dei terreni da coltivare. Piera e Rita temevano Nicola potesse essere trascinato nel giro del padre, soprattutto in un periodo in cui colpi di mitra e rivoltelle andavano a braccetto con polvere bianca e bustine. E Nicola nonostante l’affetto per moglie e sorella, continuava a provarci, era tra quelli che tentavano il salto di mettersi in proprio. Fu ucciso il 24 giugno del 1991.
Piera si rivolse alla Giustizia. Presto Paolo Borsellino, allora procuratore capo di Marsala, fu informato. Piera fu trasferita a Roma.
Rita era rimasta sola. Sola con il suo dolore di figlia e sorella, sola con i suoi dubbi, con la sua impotenza. Fu allora che si ribellò per amore: amore verso il padre, verso il fratello. E a soli diciassette anni fece ciò che nessuno in famiglia avrebbe mai pensato di fare: chiamò i carabinieri. Fu convocata in caserma sfidando la mafia di una delle zone più omertose della Sicilia. Rita consegnò la memoria di quasi un decennio di storia mafiosa locale. Borsellino fu informato e, conscio della situazione di assoluta solitudine da cui la ragazza proveniva e di quella che l’attendeva, accolse Rita con tutto l’affetto e la comprensione possibili. Mai le istituzioni avrebbero dovuto abbandonarla. Con il passare del tempo, Rita si affezionò a quel giudice così inaspettatamente sensibile e premuroso.
Rita andò a Roma, nella stessa casa di Piera. Nonostante tutte le attenzioni, le cautele e le restrizioni, Rita trascorse un periodo di assoluta serenità. Conobbe perfino un giovane di cui si innamorò e con cui progettò una convivenza.
Fino al 23 maggio 1992, quando il giudice Falcone, con la moglie e gli uomini della scorta fu brutalmente assassinato per mano della mafia. Il 5 giugno Rita scrisse un tema, da cui traggo uno stralcio:
“L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza […]. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.
Il 26 luglio, una settimana dopo l’assassino di Paolo Borsellino, Rita si gettò dal settimo piano e morì.

Glenda Dollo

crediti foto: Aspra Sicilia, di Fosco Maraini

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