Di come il flâneur ottocentesco si è trasformato in livreur uber eats

Camminare in un’affollata grande città. Un labirinto di strade sconosciute nelle quali confondersi tra la gente ed i passanti, muovendosi a caso e senza una meta. Alzare lo sguardo lungo le facciate dei palazzi storici e sentirne il racconto, mentre un tram scivola lentamente sui binari di un affollato centro cittadino, non un semplice tour turistico ma una fuga dalle banalità comuni, mentre l’occhio scorge in queste dimore austere, che reggono gli insulti dell’asfalto, delle nuove profondità. Camminare, e ancora camminare, perdendo sé stessi tra altre architetture di palazzi slanciati a tutto vetro, che raccontano nella città storica anche la nuova modernità. Necessarie coesistenze, ovviamente, dove pure c’è l’attesa di nuove e più tecnologiche strutture, magari ridisegnate secondo un’eco-sostenibilità diventata mainstream dominante. E, intanto, imbattersi in un ponte annunciato che ci ricorda di come le città scelsero i fiumi per esistere, osservando un’ansa non troppo lontana che a sua volta disegna l’altrove di un paesaggio urbano più vicino agli uomini, fatto di alberi e verde nei loro più splendenti colori di stagione. L’immersione urbana, senza soluzione di continuità, conduce lo sguardo su altre strade che vanno in diverse direzioni, che s’intersecano tra loro, in camminate piene di vetrine, negozi e insegne di vario tipo, e grandi magazzini, eredità degli ultimi due secoli dove ai mercati e bazar si è sostituita una vendita diversa, in cui la semplice esposizione della merce è diventata una narrazione di sogni. In questo on the road urbano e senza una precisa meta, lo spirito si sente libero, forse non come Jack Kerouac che con i suoi viaggi in autostop rifiutava le convenzioni sociali più ingannevoli per l’uomo, quelle che imbrigliano il destino umano entro schemi preconfezionati, mentre gli States avevano già creato una cultura di massa che avrebbe poi conquistato il villaggio globale. La nostra camminata è oziosa, una libertà capace di incredibili scoperte, di riflessioni sul camminare e sul viaggiare, sul loro senso per l’uomo, andando semmai a ritroso nel tempo, fino all’antichità, dove il viaggio era la vera metafora della vita, un andare temerario verso l’ignoto, valicando le strade già conosciute. Questa è l’avventura dell’uomo cui allude Dante nel caso di Omero, desideroso di virtute e conoscenza e in grado di essere artefice del proprio destino per divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore. Viaggiare certo, ma anche camminare, passeggiare o liberamente vagabondare, tutte dinamiche del movimento che la letteratura ha descritto, mettendo a fuoco, di volta in volta, l’uomo nuovo suggerito dalla cultura dei tempi.

L’errance o anche il vagabondare senza meta, pieni della loro carica utopica, hanno nutrito le gesta del celebre e fantastico hidalgo don Chisciotte della Mancia, in cerca di imprese cavalleresche da compiere per emulare i protagonisti della letteratura cortese, che amava leggere con passione e avidità, al punto da immedesimarsi in quelle gesta eroiche. Ma il movimento può diventare anche spazio nel quale favorire la meditazione interiore, abbandonandosi alle passeggiate come nel caso di Jean-Jacques Rousseau e del suo libro Le passeggiate del sognatore solitario, un insieme di ricordi e di meditazioni che il filosofo ginevrino scrisse negli ultimi anni di vita, pubblicato postumo, uno dei primi testi letterari in cui si faccia l’uso dell’aggettivo “romantico” in relazione al paesaggio, alla natura e al sentimento dell’esistenza. Così, tra contemplazione e sogno a occhi aperti, l’inquietudine della psiche trova in ogni tempo altri orizzonti e riposo, scoprendosi – ad esempio – in simbiosi con la natura ed in costante incontro con il divino, quest’ultima ancora una diversa possibile dimensione. Intanto, nel cuore della modernità che trova nella città l’ambito privilegiato di una diversa rappresentazione dell’esistenza, sarà ancora una volta la letteratura a consegnarci forse non proprio un eroe, ma un uomo capace di osservare la città e la folla che la abita con occhi nuovi. Siamo al flâneur la figura letteraria creata dai grandi scrittori francesi dell’Ottocento, da Balzac a Hugo, passando per Baudelaire, con l’intento di rendere attraente l’arte, o come sosteneva proprio il grande Honoré de Balzac, come capacità di “…immergere i propri sguardi in fondo a mille esistenze” facendone pure metafora della creazione letteraria. Letterato quest’ultimo dalla fenomenale produzione di opere, cui fu attribuito il titolo di Commedia umana come grande affresco storico della Francia della sua epoca, egli seppe restituirne gusti, orientamenti, sogni ed idee del tempo. La “Revue de Paris” accolse i suoi racconti La Storia dei Tredici dove comparve per la prima volta il flâneur cioè l’uomo che percorre Parigi conoscendola in tutti i suoi segreti, nei suoi eccessi, nel suo continuo movimento, nel chiacchiericcio infinito, nel suo essere piacere ma anche smodatezza, una città talmente piena da rischiare anche di diventare vuota, per l’osservatore sempre in attesa un piacere che potrebbe non arrivare mai. Parigi riesce più di ogni altra grande città, nella sua dimensione metropolitana, a disegnare una figura umana anch’essa metropolitana, come nota Victor Hugo quando nel suo capolavoro Les misérables sostiene che ‘passeggiare è umano, flâner è parigino”. Il vagabondare senza meta e senza un fine preciso, utilizzando il tempo senza un profitto immediato, è proprio del flâneur allertato soltanto dai suoi sensi, che vuole cogliere ogni suggestione della città, in un tempo dilatato che provoca anche smarrimento, secondo un’arte appresa per decifrare diversamente la realtà. Nel mutevole spazio urbano parigino sarà però il poeta Charles Baudelaire a sottolineare che la folla è l’elemento necessario perché esista il regno del flâneur così “come l’aria è il regno dell’uccello, e l’acqua l’elemento del pesce” mentre il suo camminare è assimilato al passo stesso del poeta che sembra indagare la città moderna, per catturare il verso sognato, mentre al centro della folla rimane nascosto. Le trasformazioni urbane di Parigi avevano sconvolto il poeta, che preferisce allora perdersi nell’ondeggiare della folla, da vero spirito errabondo ed esule nella società borghese dei tempi.

Questa figura letteraria crea nuovi interessi, ad esempio Edgar Allan Poe ne rimarca la condizione di “uomo della folla” che si spoglia da ogni intelligenza critica, mentre Benjamin ne fa una lettura anche sociologica, visto che la cultura fordista e la catena di montaggio sono la nuova modernità, aprendo il confronto tra questa figura e la folla urbana. I passanti di Edgar Allan Poe hanno invece un comportamento indifferente riguardo il fluire della folla e rimandano a quello di automi, condizione nuova rispetto alla figura del flâneur di Baudelaire. La folla dei contemporanei per Poe non possiede la città ma ne è posseduta, in una labirintica prigione in cui i ritmi imposti dalla società industriale portano al declino di un mondo, e il flâneur è condannato in partenza ad un’inesorabile sparizione, troppo in antitesi con il concetto di produttività sociale. In uno scritto di Poe, in tempi ancora lontani dalla società liquida di Bauman che vede trionfare l’uomo preda alla precarietà e privo di radici, si legge qualcosa che merita di essere ricordato, in quanto attuale e provocatorio:

Intorno al 1840 fu per qualche tempo di moda condurre tartarughe nelle ‘gallerie’. Il flâneur si faceva volentieri dettare il ritmo da loro. Se fosse stato per lui, il progresso avrebbe dovuto tenere questo passo. Ma non fu lui ad avere l’ultima parola, bensì Taylor, che della guerra alla flânerie ha fatto una parola d’ordine”.

Un salto e siamo ad oggi, per necessaria brevità, a ragionare su questa figura forse non troppo conosciuta ma dotata di innegabile fascino e a chiederci se possa ancora suscitare interesse. La risposta è positiva ed investe interessi di varia natura, letteraria e sociologica innanzi tutto, anche se da sempre il flâneur è in una condizione privilegiata, se vogliamo aristocratica, sia dell’intelletto che dello status sociale cui appartiene, di chi è esentato dalla lotta per la sopravvivenza e può permettersi una condizione di astrazione dalle dinamiche del quotidiano. La società frenetica di oggi intanto è andata ben oltre le grandi e moderne città, alle metropoli si sono aggiunte le megalopoli, come risultanti dalla conurbazione di più città vicine, con il loro sviluppo spropositato e la densità di popolazione altissima. Le vite frenetiche di queste città è difficile possano dialogare con il flâneur che, per definizione, è una figura anticonformista, anacronistica anche potrebbe dirsi oggi, ma legata poco alle convenzioni ed artistica per antonomasia.  Oggi chi mai può permettersi di perdere del tempo passeggiando ed osservando i passanti o le architetture ed i quartieri di una grande città, senza orologio e senza meta? La frenesia della vita urbana è scandita dalla tecnologia sempre più invasiva, mentre le relazioni ed i contatti diretti con le persone si riducono, per questo l’atteggiamento controcorrente del flâneur ora fa i conti con questa nuova dimensione. Si parla oggi di cyberflâneur cioè di chi passeggia nel web senza meta o anche di nomade digitale, quest’ultimo un compromesso tra una concezione produttivistica della vita ed il bisogno di libertà insito nell’uomo. Si, perché l’invenzione dell’oggi è un approccio nomade di vita che consente all’individuo di sfruttare le tecnologie e il web, organizzando il proprio lavoro mentre viaggia per il mondo. Sono i compromessi al ribasso dei nostri tempi, bellezza! Si lavora a distanza recuperando una maggiore libertà per l’individuo, in analogia con quella dimensione anacronistica del flâneur? Intanto necessita regolare il diritto alla disconnessione, per evitare di essere risucchiati del tutto in uno spazio lavorativo sconfinato. Si naviga nel web e tra i social network senza sosta, in analogia forse con il flâneur che camminava senza meta nella metropoli? Intanto si dimentica che tutto quanto ci vien mostrato nel web non è un dono ma una nuova modalità del profitto, una sollecitazione costante all’acquisto. Così, ben lontani da ogni forma di flânerie perché la prospettiva è completamente diversa, perso il sapore anche romantico di quel vivere, vero è che siamo tutti in un incredibile luna park che è il mondo contemporaneo, sedotti dalle più prosaiche lusinghe di felicità dai menu fast food che grandi multinazionali del settore promettono di fare arrivare comodamente a casa nostra. Questo per non illudersi, anche se attrezzandosi culturalmente ed in concreto, la flânerie potrà comunque essere un’esperienza di vita, per un giorno, per un anno o per sempre, dipende soltanto da noi.

Marisa Paladino

foto: Edouard Boubat

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