“La vita è un viaggio da fare a piedi”.
Bruce Chatwin
Da bambino, complice un capace maestro elementare, mi sono appassionato alla storia e per un breve periodo ho creduto che da grande avrei intrapreso la professione dell’archeologo. A dare sostanza a questo mio convincimento fu l’infatuazione per figure leggendarie comparse in pagine letterarie e trasposizioni cinematografiche che poco o nulla avevano a che fare con la verità storica, quanto con l’immaginazione di chi come me se n’era innamorato. Uno di questi personaggi fu senz’altro Alessandro Magno, le cui gesta non mi stancavo mai di ascoltare o di leggere con avidità. Come spesso accade, quei sogni di fanciullo mutarono veloci e il moltiplicarsi delle esperienze fece in modo che l’archeologia diventasse un ricordo. Non così le discipline storiche, l’amore per le quali si depositò ben presto tra le pagine di quei libri diventati con il trascorrere degli anni la mia occupazione quotidiana. In questo modo ho avuto la fortuna di scoprire artisti innamorati come me bambino dell’archeologia, poeti – esploratori affetti da un nomadismo senza scampo che hanno intrapreso viaggi accidentati e inseguito miti come quello di Alessandro Magno, per riportarne le impressioni con fine estro espressivo in testi memorabili. Due di loro erano Peter Levi e Bruce Chatwin, amici inclini a quel sognare diurno che T. E. Lawrence in Seven Pillars of Wisdom individua come il sintomo specifico dell’autentico viaggiatore. Con la comune predilezione per Alessandro Magno, intrapresero un viaggio in Afghanistan sulle tracce dei regni greci fondati dai soldati del condottiero macedone tra il III e il II secolo a. C. ispirando a Levi un resoconto letterario corredato dalle fotografie in bianco e nero scattate da Bruce Chatwin. Poco dopo, quest’ultimo sarebbe diventato iconico al pari di Alessandro Magno. Su Peter Levi al contrario sembra calato il silenzio, identica sorte toccata alla sua opera maestra: The Light Garden of the Angel King.
Nato nel 1931 alla periferia di Londra, Peter Levi è stato una personalità unica di intellettuale inglese a cominciare dalle sue intricate origini familiari. Il padre di Peter proveniva da una famiglia sefardita di mercanti di tappeti, era arrivato da Istanbul e in Inghilterra aveva incontrato Edith Mary Tigar, una ragazza inglese di lontane ascendenze spagnole, animata da una profonda fede cattolica e forte di una personalità indomabile. Malgrado le differenze, i due si sposarono molto presto. Herbert Simon Levi si convertì alla fede della giovane sposa e assieme crebbero i tre figli nel cattolicesimo, al punto che tutti loro sarebbero stati destinati a prendere i voti. Poco più che adolescente Peter contrasse la poliomielite, e costretto a letto per lungo tempo ebbe i libri come sola compagnia. Quell’esperienza gli permise di ampliare i confini dell’immaginazione, approfondì l’amore che già nutriva per la Grecia classica e il suo mondo radicato nella poesia e nel pensiero, accese il suo interesse per la figura di Alessandro Magno e le sue imprese, approdando alla ferrea convinzione che la scrittura era il suo destino e che avrebbe viaggiato un giorno sulle orme del condottiero macedone. Permeato ancora da un forte sentimento religioso frequentò istituzioni cattoliche private, continuando a leggere in maniera onnivora. Sorpreso dall’opinione del suo idolo giovanile Oscar Wilde secondo cui nessun libro poteva sfiorare la bellezza della versione in greco dei Vangeli, Peter scelse di frequentare il collegio gesuita di Beaumont con il proposito di perfezionare quella lingua. Con il noviziato cominciarono i primi interrogativi sulla fede che lo spinsero a procrastinare l’ordinazione sacerdotale di un anno. Era il 1963 quando, nel tentativo di dissipare quei dubbi, decise di compiere il primo viaggio in Grecia. Diventato sacerdote l’anno successivo, Peter Levi cominciò una solida carriera accademica costellata da una ininterrotta serie di pubblicazioni che ne fecero una originale figura di poligrafo nel panorama delle lettere inglesi, un gesuita capace di essere al contempo un sensibile poeta e un acutissimo biografo, un fine traduttore e un archeologo che per via dei suoi numerosi viaggi era in grado di restituire vivida luce a civiltà sepolte da tempo immemore. Sul finire degli anni ’60 Peter incontrò un allora sconosciuto Bruce Chatwin. Tra il poeta silenzioso carico dei dubbi sulla propria vocazione e il ragazzo estroverso ossessionato dal nomadismo nacque un legame profondo, destinato a durare fino alla prematura scomparsa di Chatwin. Mossi dai medesimi interessi, si unirono a una spedizione archeologica che nel 1969 li portò in Afghanistan. Di quell’esperienza Levi tenne un diario puntuale che, accompagnato dalle splendide fotografie dell’amico Bruce, sarebbe diventato nel 1984 uno dei più significativi omaggi letterari all’arte del viaggiare, nonché il libro della piena maturità di Peter Levi: The Light Garden of the Angel King: Journeys in Afghanistan. Si trattò dell’apice del suo peregrinare, gli anni che seguirono furono caratterizzati dal sopravvento di quelle ombre che portarono Levi a lasciare il sacerdozio e dal matrimonio tardivo con la vedova del critico Cyril Connolly. Ottenuta la cattedra di poesia a Oxford, continuò a insegnare fino alla morte sopraggiunta nel 2000 a causa dei postumi sempre più gravosi della poliomielite che l’aveva colpito da ragazzo e che gli impedivano ormai di viaggiare come aveva fatto per quasi tutta la sua vita adulta.
Un decennio prima dell’invasione sovietica e a più di trent’anni da quella americana, quest’ultima percepita da larghi strati della popolazione afgana come una prosecuzione di quella russa, l’Afghanistan era un paese molto diverso da come le cronache odierne ce lo descrivono. Peter Levi e Bruce Chatwin attraversarono una terra per nulla ostile nella quale l’altro non era avvertito come un invasore, bensì come un ospite d’onore che andava accolto con tutti i riguardi. Se a portare Peter Levi in Afghanistan furono soprattutto gli entusiasmi del classicista per Alessandro Magno e per gli indizi delle influenze elleniche che ancora si potevano osservare ai confini orientali del suo impero, una volta giunto a Kabul la prospettiva cambiò alla radice. Nella capitale afgana Levi e Chatwin si trovarono a esplorare un luogo che ospitava il monumento funebre del fondatore della dinastia Moghul. Si trattava del giardino di Babur e doveva il suo nome all’uomo che a cavallo tra il XV e il XVI secolo aveva fondato uno dei più estesi e temuti imperi della storia indiana. Poco prima della sua morte l’imperatore Babur decise di dar vita nella prediletta Kabul a un giardino nel centro del quale le sue spoglie mortali avrebbero riposato per sempre. Frammenti di descrizioni relative alla costruzione del giardino di Babur si trovano sparsi tra le pagine delle memorie dell’imperatore, il libro che condusse Levi e Chatwin fino a quel che restava della sepoltura di Babur. Tutto si chiarì all’improvviso nella mente di Levi, il diario di viaggio prese la forma di un progetto articolato e da una iscrizione posta all’ingresso del monumento funebre nacque il titolo del libro: The Light Garden of The Angel King, la finissima luce catturata dall’obiettivo di Chatwin accarezzava il giardino silenzioso nel quale riposava il re angelo Babur. Pubblicato nel 1984 quando Chatwin era assurto a incarnazione stessa del moderno viaggiatore, il libro contribuì a diffondere il nome di Peter Levi e straordinaria fu la ricezione dell’opera che in breve si trasformò in un testo di culto. Concepito come un’opera – mondo, ricco di una scrittura esatta ma orientata dall’inclinazione alla poesia del suo autore, The Light Garden of the Angel King è un inesausto pellegrinaggio fisico e mentale tra arte e letteratura, storia e architettura, natura e paesaggio di una terra colma di civiltà differenti che si erano fuse tra loro con estrema disinvoltura. A rendere prezioso il racconto è la cura per il dettaglio di Levi accordata ai chiaroscuri di Chatwin: la descrizione di una strada polverosa si unisce allo stupore provato dinanzi alla scoperta di una miniatura o di un arazzo, l’accoglienza calorosa ricevuta da un gruppo di anziani pastori diventa l’occasione per rinverdire nozioni di architettura islamica e condurre alla commozione provata davanti alle rovine dell’antica tomba della madre di un potente signore vissuto un secolo prima dell’imperatore Babur. Su tutto rimane ferma alla fine l’impronta lasciata da Peter Levi e Bruce Chatwin, il cui legame ci appare tra le righe come l’esempio dell’irrequietudine nomade che inchioda gli spiriti più sensibili, toccando in questo caso uno studioso irretito dalla fede e uno sfuggente e inesauribile cantastorie incapaci di accettare la prigione della quotidianità.