Nina Simone: Nella voce la libertà di chi vince ogni maledizione

Vorranno segnare la tua carne con catene che spezzerai, che continuerai a sentire sotto la pelle perché la libertà dovrà passare prima sotto la pelle per poi esplodere fuori prepotente e invadere ogni cosa. Più nessuna catena terrà fermo il pensiero, la voce, l’anima destinata a volare.

And we’ll feeling good.

La senti l’eco della mia voce che ti scuote? Canta di una nuova alba, un nuovo giorno, una vita nuova. Ma questo mondo, questo nuovo vecchio mondo, rassomiglia ancora a sé stesso mentre la mia voce rimbomba dalla terra. La mia terra mi chiama, pretende che la voce passi dalla mia pancia si liberi come un figlio cui dai vita, tra le lacrime e la gioia, la mia voce, dalla gola attraversa l’aria, passa spezzando le corde, quelle ispessite che vibrano e incantano cantando la libertà. Corde. Quelle che spaccavano le ossa incastrate dalle ingiustizie. Quelle che ti segnano la pelle, solo perché la tua pelle ha il colore della notte. Che il mondo applauda, che resti a guardare la mia faccia di adesso. Ho la fatica dei giorni ancorata sotto la pelle. Li vedo, gli occhi preoccupati che io non riesca a ipnotizzare gli sguardi, come facevo una volta. La malattia mi piega, mi porta via le parole, mi colpisce al petto, ma resisto e invento una forza che non sapevo di avere.

Dentro cullo ancora la bambina che sono ancora, la “Nina” parola soave che riporta l’amore giovane lontano nel tempo. La mia gioventù adesso a pensarci erano madre e padre, una fila di fratelli, era la Parrocchia in cui i suoni riecheggiano ancora come sirene incantatrici e piano guidavano le mani al pianoforte. Quanto avrò avuto, tre anni forse? I tasti bianchi e neri sotto la mia pelle, diventavano una sola cosa, diventavano Debussy, Bach si mescolavano ai miei sogni. Perché anche una piccola ragazzina di colore di provincia, può avere grandi sogni, qualche volta più grandi di lei. Quella studentessa di colore di periferia ne aveva tanti ma per l’Istituto di Filadelfia era troppo di provincia, e troppo di colore per inseguirli. Non sapevano che lei non avrebbe mai rinunciato a quella corsa, perché la vita e il destino hanno i loro piani.

Anch’io avevo il mio, e con quello mi guadagnavo da vivere, tra ristoranti, locali, cabaret. Cantavo e cantava il mio colore, e il colore opposto ascoltava. Ecco, il suono poteva insinuare attimi di magia e illusione che tutto potesse combaciare come i tasti del piano, e convivere creando qualcosa di bello. È così che costruivo il mio nome, col ricordo di un mito e quello di un amore andato, costruivo il mio mito e un carattere che dicevano “difficile” che mostravo quando i miei genitori dovevano lasciare posto ai bianchi ad uno dei miei concerti, e non avrei suonato se non fossero tornati al loro posto. Il posto che spettava loro, il posto che spetta ad ognuno di noi che nessuno può decidere di spostare, allontanare, mettere da parte. Posto meritato, guadagnato, sudato a fatica a costo di te stesso a costo di diventare come roccia, come terra della tua terra, luce e aridità, senza più calore, che hai disperso dietro altre battaglie e non t’intenerisce neanche la tua stessa carne. A chi la mia carne faceva pietà? All’amore spietato che non fermava le mani? Al dolore dell’amore prepotente che vuole piegarti? Forse soltanto a me stessa. Quando la vita è troppo feroce diventi pantera con la fame perenne negli occhi. Impari a difenderti, a chiudere porte e finestre per paura che il vento ti trascini via, di perdere i sogni raccolti tra le mani. I viaggi tenevano lontano da casa, da dove le battaglie ferivano meno, ma ferivano ancora. Mai stanca di urlare contro qualunque ingiustizia, ho lottato come fiera, per ogni diritto negato, per legare gli esseri umani, restando da sola in un letto, da sola, col mondo che acclamava fuori. “Ne me quitte pas”, non andare via “Io ti offrirò perle di pioggia venute da paesi dove non piove mai” passo tra le righe delle poesie accompagnate da lacrime di suono, riconosco il mio addio, me ne vado sola, spargendo semi che fioriranno sotto il peso dei ricordi nella terra dei miei avi, mai dimenticati. Quella terra mi accoglie come fossi una figlia adottata troppo tardi. Riconosceranno il mio valore, il mio suono, sarò come un sospiro perso tra la polvere di una terra dura e carnale che mi somigliava troppo.

Stefania Castella

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