Come tutti, possiedo piccoli tesori. Beni materiali intrisi di un valore che io, o la vita, gli abbiamo attribuito. Tra questi, una copia di Nuovo Sud, maggio 1969. Contiene una breve storia di migrazione costruita da fotografie di Ferdinando Scianna accompagnate da un racconto strutturato in didascalie a firma di Vincenzo Consolo.
Negli anni Sessanta i due siciliani si incrociarono, certamente in virtù della mediazione di Leonardo Sciascia, all’inizio delle loro carriere. Consolo, emigrato a Milano, aveva pubblicato per la collana I gettoni La Ferita dell’aprile nel 1963 e collaborava con L’Ora di Palermo. Scianna, dopo aver abbandonato la Facoltà di Lettere, aveva deciso di dedicarsi alla fotografia pubblicando, con Sciascia, il libro Feste religiose in Sicilia.
Il racconto è la storia di un giovane emigrante siciliano che, dopo il terremoto del ’68 che distrusse la valle del Belice, parte per lavorare nelle miniere del Belgio.
Lo tenevo tra le mani su un treno Milano-Torino colmo di pendolari.
Un altro tesoro è un libro appartenuto a mia nonna. Un libro su Leopardi scritto da Federico De Roberto. Ho ereditato un’intera biblioteca da mio nonno. Il fatto che questo testo, frutto di un amore struggente di uno scrittore siciliano per il grande poeta recanatese, fosse di mia nonna, me la fa sentire vicina.
Conservo qualche centinaio di conchiglie microscopiche appoggiate, per forma e colore, su un foglio di cartoncino a formare un disegno; la prima mia autoradio, appartenuta a mio padre, che porta inceppata al suo interno una musicassetta di Tracy Chapman.
Non sono un’accumulatrice seriale, ma amo le cose: lo scricchiolio del legno e del mio pianoforte, i libri che appartennero ad altre vite, le penne BIC nere, che possiedo in quantità, la mia chitarra, un amplificatore valvolare degli anni Sessanta.
Il consumismo ci priva dall’investire le cose di sentimento. Tutte le cose, non solo gli oggetti. Eppure si tratta di una tradizione antichissima e ancestrale, connaturata all’essere umano.
Ero a un concerto reggae in un pub di motociclisti a Dublino quando un armonicista mi coinvolse a conversare su questo strumento, da me sempre amato. Mi indirizzò a un antico negozio in cui comprai la mia prima armonica, che dopo circa dieci anni regalai a un ragazzo che aveva ritrosia nel suonare alle jam. Ma s’innamorò dell’armonica.
Esistono società in cui gli oggetti, caricati di valore simbolico, suggellano alleanze, fratellanze, legami di vario tipo tra esseri umani. Sono società basate sullo scambio e sul dono.
La nostra società è basata sull’acquisto, sul consumo e sul tornaconto. Il dono diviene regalo, scadendo spesso nella mera ostentazione. L’oggetto definisce il grado di benessere del compratore: è uno status symbol. È la mera mercificazione del dono.
Il dono è innanzitutto l’espressione di un sentimento. Sua caratteristica principale è che esso non presuppone un ritorno, con alcune eccezioni. Per i Maori, ad esempio, il dono custodisce parte dell’anima del donatore, che, mediante altro dono, deve tornare al suo legittimo proprietario.
Quando si dona, non si dona che se stessi. Donarsi è, forse, la massima espressione di fiducia nell’altro.