In queste ultime settimane abbiamo assistito a un innalzamento delle temperature, che ha messo a dura prova la nostra resistenza fisica e reso un calvario anche le azioni più comuni della nostra quotidianità. Qualcuno potrebbe essere tentato dal pronunciare un rassicurante: «Ancora un mese ed è finita…», ma i lettori più consapevoli sanno che, secondo le stime, questa non è che la prima di una serie di estati, non meglio quantificabili, di gran lunga peggiori. L’Accademia cinese delle scienze, infatti, ha dichiarato che nel futuro prossimo le ondate di calore potrebbero aumentare del 30%, tanto da spingere gli studiosi a parlare di un vero e proprio punto di non ritorno. In effetti non è di certo il primo segnale di insofferenza che Madre Natura ci manda: negli ultimi anni abbiamo osservato sospendendo l’incredulità una serie di mutamenti atmosferici di notevole impatto. Cito tra i tanti: lo scioglimento dei ghiacciai; l’aumento di emissioni di CO2; la perdita della biodiversità; la crescita del livello marino e l’inondazione di città costiere, come Venezia; improvvise esplosioni di bombe d’acqua; incendi fuori controllo e così via. Per non parlare del fatto che la città di Torino ha riscosso timidamente il primato di città più inquinata d’Europa. Di fronte a tutto ciò viene da chiedersi che cosa ne possano dedurre gli studi umanistici; alla fine la letteratura dovrebbe essere un modo per evadere dalla realtà, per vivere altre vite, in mondi diversi da questo. Tuttavia, proprio in virtù del suo ascendente suasorio, alcuni critici si sono soffermati su quel filone narrativo chiamato cli-fi (acronimo di Climate Change Fiction), che, nato di recente, ha come obiettivo esplicito proprio quello di risvegliare le coscienze del suo pubblico, in relazione al cambiamento climatico.
Già nel 1978 William Rueckert coniò il termine “ecocriticism” all’interno del saggio Literature and Ecology: An Experiment in Ecocriticism, con l’intento di focalizzarsi sui concetti di “ecologia” ed “ecologico”, applicati allo studio della letteratura, intendendo con il primo l’insieme delle interrelazioni tra esseri umani, animali e ambiente naturale. Ciononostante fu il ’91 l’anno di consacrazione di tale termine, ad opera di Harold Fromm, il quale, nell’opera Ecocriticism: The Greening of Literary Studies, affermò che con esso si intende l’insieme di tutti quegli approcci e prospettive che condividono la convinzione secondo cui gli estremi del binomio natura-cultura si alimentano a vicenda. In altre parole, secondo Fromm, il fine di tale corrente critica sarebbe esplorare il rapporto tra scrittori, testi letterari e società, riconoscendo alla natura un ruolo importante quanto quello umano.
Soprattutto a partire dagli anni ’80, forse anche suggestionati dall’avvento del nuovo incerto millennio, numerosi scrittori, del calibro di Margaret Atwood, William Gaddis e John Cheever, hanno dato un taglio di carattere distopico alle loro opere, che ci mostrano futuri post apocalittici, conseguenti a disastri ambientali di entità enormi. Basti pensare a uno dei più noti romanzi cli-fi della prima citata, L’ultimo degli uomini, che sembra quasi profetico per la straordinaria attinenza alla nostra attualità: qui, infatti, l’unico umano rimasto in vita dopo una pandemia si ritrova a lottare per la sopravvivenza in un ambiente ostile, in cui le uniche tribù viventi si sono adattate alle nuove condizioni climatiche mutando la propria struttura genetica. L’eccezionale capacità narrativa dell’autrice, inoltre, riesce a far trasparire tra le righe anche la denuncia verso un discredito collettivo nei confronti delle discipline umanistiche, ambito nel quale lavora come pubblicitario proprio il protagonista non troppo stimato di questa vicenda.
Sebbene la “scuola” distopica possa da subito risultare il metodo più efficace per risvegliare la coscienza del lettore sul legame ecologico che unisce uomo e natura, esiste un’altra “scuola” di autori, più moderata, che ha deciso piuttosto di raccontare storie di vita quotidiana, sul cui sfondo si celano esempi reali o verosimili di cambiamento ambientale. In tal proposito, si ricorda il successo La collina delle farfalle di Barbara Kingsolver, nelle cui pagine viene riportato uno degli effetti della deforestazione sul comportamento delle farfalle monarca, che, avvezze da sempre a svernare in Messico, compaiono per la prima volta negli Appalachi meridionali, suscitando nella gente del posto riflessioni di stampo perfino religioso.
In effetti, sia nel primo che nel secondo caso, i lettori sono spinti a pensare alla necessità di rivedere il rapporto natura-cultura in maniera reciproca, in cui entrambi i suoi poli, egualmente viventi, vengano preservati e, anzi, valorizzati, in un’ottica olistica e inclusiva. Con queste premesse, dunque, anche gli studi umanistici assumono un ruolo attivo e fondamentale nella costruzione di una sensibilità collettiva, utile alla maturazione della società come dell’individuo, che diventano consapevoli in modo maturo dell’ecosistema di cui fanno parte e da cui dipendono come parte integrante.
Samantha Sticozzi
(foto: Barbara Kingsolver – credit: Evan Kafka)