La mia generazione perduta. Un omaggio a Douglas Coupland e a un libro cult oggi dimenticato

Fino a qualche anno fa era raro che mi voltassi a riconsiderare il passato. Come per tanti mi capitava di ricordare nel silenzio della mia stanza le persone che avevo amato e che non erano più con me, ma non sentivo l’impulso di tornare con la memoria ai miei vent’anni. Credo che il motivo per questa ostinata resistenza a lasciarmi attraversare dai ricordi sia in parte da attribuire alla vulgata tutta contemporanea che reputa la nostalgia un sentimento reazionario e per altri versi al fatto che non desideravo essere confuso con uno di quegli anziani che ascoltavo da bambino mentre raccontavano ai nipoti la versione edulcorata della propria giovinezza. Non intravedendo nipoti in un prossimo futuro, mi chiedevo chi mai potesse ascoltare le storie su “quando ero giovane io” senza mandarmi brutalmente a quel paese. Eppure, forse per come ho visto cambiare il mondo negli ultimi anni o soltanto perché già dopo l’11 settembre del 2001 mi era parso di non essere più la persona che aveva creduto si potesse fare qualcosa di buono per questo nostro mondo alla deriva, mi ritrovo oggi a provare nostalgia per i miei trascorsi di ragazzo. Soprattutto ora, nella quiete di una biblioteca posta da qualche parte tra le stradine di un paese di montagna, mi sento pronto a fare un secondo coming out, meno importante del primo ma di certo più inatteso: vorrei mi fossero restituiti gli anni ’90. Avevo vent’anni e ricordo esattamente dove mi trovavo quando morirono River Phoenix e Kurt Cobain. Ethan Hawke e Winona Ryder in Reality Bites raccontavano con precisione come eravamo. Il cinema di Gus Van Sant e la letteratura indie che arrivava dalla West Coast riuscivano con una naturalezza disarmante a farmi comprendere l’identità del mio desiderio. Il pensiero di Alexander Langer e le marce di protesta contro il sangue che di nuovo e inutilmente si versava nei Balcani mi davano la forza e la speranza di credere che un mondo altro era davvero possibile. Qualcuno storcerà il naso e qualcun altro inveirà contro il solito vecchio lamentoso, pur non ritenendomi io un boomer. Di certo appartengo a una generazione che si è illusa e presto disillusa di poter battere il cinismo del decennio precedente e che è arrivata a gettare in fretta al vento il grunge per abbracciare con l’identico cinismo di chi era venuto prima di noi i populismi più repellenti. Nulla di nuovo, è accaduto prima e forse accadrà anche a chi oggi grida boomer a ogni piè sospinto. Mi chiedo però – e ammetto tutta l’arroganza con cui sto per fare questa affermazione – quanti prima e dopo la mia generazione possano vantare un cantore così efficace come Douglas Coupland.

Forse Douglas Coupland deve alle sue origini on the road quella vivace curiosità che lo rende ancora oggi artista multiforme tra i più interessanti in circolazione. Coupland nasce nel 1961 in una base Nato canadese dell’allora Germania Ovest, cresce a Vancouver dove la famiglia è rientrata quando lui aveva quattro anni e comincia studi di fisica a Montreal, città nella quale si trasferisce per frequentare l’università. Spirito nomade che ha assimilato la cultura libertaria degli anni ‘70, abbandona la facoltà di fisica e Montreal e asseconda la sua vocazione artistica laureandosi in scultura e design, lavorando sempre in viaggio tra Stati Uniti, Italia e Giappone. Siamo nell’epoca in cui di internet si sussurrava la probabile futura diffusione e ci si interrogava sulle sue possibili applicazioni e un vivacissimo Douglas Coupland recepiva miriadi di reti culturali con l’urgenza di poterle esprimere attraverso strumenti eterogenei. Di tutto ciò che andava afferrando senza pregiudizio alcuno, Douglas Coupland cominciò a scrivere per alcune testate canadesi una volta rientrato in patria. Sul finire del decennio plasmato da Reagan e dalla Thatcher, quel tempo di tragico ottimismo che pare già preistoria negli scritti di Coupland, le sue peregrinazioni gli permettono di raccontare come l’aria divulgata dai canali ufficiali sia in realtà stantia e quel malessere covato in silenzio dietro carrettate di lustrini e una ipocrita indifferenza stia per esplodere disseminando ovunque disperazione e grida. I pezzi che Coupland scrive in questo periodo diventano – come oggi si direbbe – virali e costituiscono il materiale grezzo da cui nasce il libro destinato a diventare un autentico culto perché capace di ascoltare la voce di una nuova generazione con lucida poesia e sconcertante precisione in quel movimentato ultimo scorcio di secolo che furono gli anni ‘90: Generation X: Tales for an Accelerated Culture. Douglas Coupland all’improvviso diventa una figura letteraria iconica al pari di Dennis Cooper e Bret Easton Ellis e parte di un nutrito gruppo di voci che tramite libri, musica e film è riuscito a riconnettere le persone con la realtà dopo anni di irreali sbornie consumistiche. Seguirono altri libri e numerosi variegati lavori nei campi artistici più disparati. Cominciò un nuovo secolo e nel peggiore dei modi possibili. Fedele allo spirito del decennio che gli ha dato un seguito repentino, non ha mai fatto alcunché per alimentare la fama che gli è cresciuta attorno, preferendo lavorare e creare in silenzio per raccontare il mondo che lo circonda. Forse sorridendo sornione pensando a chi come me lo considera una leggenda al pari di una rockstar. Andy, Dag e Claire sono giovanissimi e abitano nella Bassa California al principio degli anni ‘90. Provengono da realtà familiari complicate e vivono una quotidianità precaria.

Come in una versione aggiornata delle opere di Boccaccio e Chaucer, si ritrovano con regolarità a casa di Andy per raccontarsi storie di volta in volta immaginarie, realistiche o visionarie la cui origine si cela nel vissuto doloroso e personale di ciascuno di loro. Man mano che gli incontri si infittiscono, vedono crescere anche il numero di partecipanti e i racconti si moltiplicano, trasformando la casa di Andy – il personaggio narratore del gruppo – nel rifugio per una generazione che rifiuta tutto ciò che oltre quelle mura sicure è percepito come una pestilenza. Il conforto del narrare sarà provvisorio e lo sciogliersi del gruppo li vedrà andare per il mondo, ciascuno messo davanti ai propri demoni, tra chi paralizzato dalla paura si adeguerà alla trappola del sistema che predomina e chi ostinato non rinuncerà ai propri ideali per una vita libera. Originato da un articolo che Coupland scrisse per una rivista canadese alla fine degli anni ‘80, il romanzo nasceva nelle intenzioni dell’autore come tentativo di raccontare una generazione stanca dei miti scadenti del successo e del consumo a ogni costo e per questo diversa alla radice rispetto a quella nata nell’immediato secondo dopoguerra che quei miti aveva contribuito a produrre senza tener conto delle conseguenze, secondo un meccanismo che pareva trasfigurare il rapporto tra il dottor Frankenstein e la sua creatura. Pubblicato nel 1991, stesso anno dell’uscita di My Own Private Idaho di Gus Van Sant, altra storia di fuga e rifiuto di un gruppo di giovani alla ricerca di una vita altra rispetto all’imperante status quo, le due opere si trasformarono nel legittimo manifesto di un decennio che sembrava imporsi alti obiettivi da perseguire, scevro degli eccessi di quel rancido progressismo percepito come traditore a causa dell’abuso di ideologia. E fedele ai valori di allora, malgrado l’acquisizione immediata dello status di maestro, Douglas Coupland rifiutò su due piedi il ruolo di portavoce di una generazione e i privilegi mediatici che quell’etichetta prometteva, rinunciando a ingenti vantaggi economici per continuare con semplicità il suo lavoro di artista. Grazie alla sua struttura complessa, ai suoi continui riferimenti alla cultura pop e all’alternanza di molteplici registri linguistici che spaziano dalla satira irreverente al racconto intimista, dalle parodie di classici in stile soap all’uso di generi poco o nulla frequentati dalla cosiddetta cultura alta, il romanzo di Douglas Coupland si trovò poi a essere il dichiarato testo di riferimento alla base di alcuni dei più popolari esordi di quel decennio: dal Trainspotting di Irvine Welsh del 1993 al Fight Club di Chuck Palahniuk del 1996. Tuttavia questi, grazie anche a due riuscitissime trasposizioni cinematografiche, si erano trasformati in fretta da genuine testimonianze generazionali a libri alla moda nonostante l’indubbio talento dei loro autori che si misero in coda alla sorte di un’altra loro fonte di ispirazione, quel Bret Easton Ellis che con America Psycho sempre nel 1991 aveva fatto i conti con “l’incubo ad aria condizionata” che furono gli anni ‘80. Al contrario, Douglas Coupland fedele alla propria ricerca estetica, ha attraversato le mode senza esserne scalfito e si è posto in tal senso al centro di una mia personalissima triade, tra il radicalismo senza compromessi di Dennis Cooper e l’inquieta trasfigurazione della realtà di Scott Heim, che grazie al suo esordio del 1996 con il romanzo Mysterious Skin ha rielaborato con voce magistrale gli stilemi propri di Coupland.

Anni fa, quando questo mio odierno amaro disagio non aveva ancora preso a farmi compagnia e la mia mente era occupata dalle trappole del quotidiano, sono inciampato sulle pagine di Mark Fisher, un pensatore inglese che mai avevo letto prima. Un po’ più grande di me, Fisher è stato parte integrante del decennio che ho tentato di raccontare fin qui e grazie alle sue analisi lucidissime su come siamo arrivati al punto in cui siamo, facendo ampio uso della propria sterminata cultura sia filosofica che pop, sono riemerse in me tracce di quello spirito arrabbiato e iconoclasta che forte aveva caratterizzato i miei anni ‘90. Della gioia e dell’idealità però non vi era più traccia e leggendo le parole prive di retorica di Fisher su come una alternativa abitabile al realismo capitalista sia ormai pressoché sconfitta in partenza, ho pianto pensando al gesto con cui Mark Fisher ha posto fine alla sua vita. Resta in me soltanto uno spirito stanco e acciaccato che ogni tanto ancora cammina con fare sperduto sulle strade deserte dell’Idaho accanto a River Phoenix o con energia incontenibile grida sotto un palco i versi più intensi di Kurt Cobain:

Come as you are, as you were
As I want you to be
As a friend, as a friend
As an old enemy

Take your time, hurry up
Choice is yours, don’t be late
Take a rest as a friend
As an old

Memoria, memoria
Memoria, memoria

Alex Marcolla

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