Utopia è una giovane casa editrice, fondata a Milano nel gennaio del 2020, che si presenta con un biglietto da visita decisamente sfidante: “non propone libri che si vendono, ma vende i libri che si devono proporre”. La scelta editoriale di garantire nella stampa il valore letterario e la qualità della scrittura proposta, che può esserci tanto nel nome di un grande autore dimenticato che in autori meno conosciuti, ma altrettanto validi, è una garanzia per il lettore, soprattutto se si ragiona fuori delle logiche strettamente commerciali. E quello che si dovrebbe riuscire a fare sempre di più! Intanto nel catalogo di questa casa editrice scopriamo la ristampa di una delle voci più importanti del nostro Novecento letterario, caduta in un immeritato oblio, complice la manchevolezza nelle scelte editoriali ma, prima ancora, la stesura di programmi scolastici che trascurano molti autori importanti, decisione quest’ultima che investe le scelte di fondo della politica scolastica, ma questo è un capitolo a sé! Infine ha giocato l’appartenenza ad una letteratura al femminile, che spesso ha dovuto faticare molto per fare ascoltare la propria voce, in un mondo ed in sistema culturale dominato dagli uomini. La piccola case editrice intanto ha pubblicato, con l’introduzione della scrittrice sarda Michela Murgia, il romanzo Cenere, è chiaro quindi che stiamo parlando addirittura di un premio Nobel, cioè di Grazia Deledda, insignita del riconoscimento per la letteratura nell’anno 1926, e premiata a Stoccolma il 10 dicembre 1927. Un premio e che presenta dell’incredibile, se si pensa al fatto che si tratta di una donna nata a Nuoro, piccola città della Sardegna e capitale della Barbagia, che dobbiamo immaginare a fine ‘800 come una terra antica del tutto separata dal resto della Penisola. I romanzi di questa grande scrittrice hanno fatto conoscere, di questa parte della Sardegna, splendidi scenari naturalistici ma anche la sua arretratezza, quella di una terra forte dell’attaccamento alle proprie tradizioni, custodite gelosamente da piccolissime comunità, a volte solo con poche migliaia di abitanti, e molto radicate nelle loro usanze. Si tratta ancora di una scrittrice donna e questo non può non alimentare stupore, per una vicenda esistenziale non proprio comune, soprattutto se si parla di donne di quell’epoca. Il caso vuole, però, che Grazia appartenga ad una famiglia benestante, con il padre che si occupa di commercio e di agricoltura, ma che si interessa anche di poesia, compone infatti versi in dialetto, e stampa a sue spese, in una piccola tipografia messa su con proprie risorse, anche un piccolo giornale. La scrittrice, in occasione del conferimento del premio Nobel, pronuncia un discorso, breve ed intenso, dove tratteggia le sue origini e la sua vita fino ad allora, ricordando che la sua è “una famiglia composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva biblioteca” e rivelando la fortuna di avere avuto una biblioteca nella casa paterna. Ci piace ricordare che esiste una preziosa e rara registrazione audio di questo discorso, un vero e proprio frammento di storia, custodita nella raccolta prodotta da Rai Teche per l’anniversario degli Ottant’anni della Radio, quindi un discorso che può essere riascoltato ancora oggi. Una voce pacata e chiara, ma nello stesso tempo semplice e solenne, che genera anche commozione, e sorprende per la sua sintesi, non scevra di una silenziosa poetica. Grazia Deledda ha frequentato fino alla quarta elementare, come era possibile allora per una ragazza nata perbene, poi le successive lezioni private del suo precettore l’hanno incoraggiata in questa avventura letteraria, la giovane di suo innesta anche un percorso da autodidatta e le sue letture, forse anche un poco disordinate, spaziano da Dumas, Ponson du Terrail, Balzac, Sue, Carolina Invernizio, quindi i testi dei veristi, poi D’Annunzio e i grandi romanzieri russi. La vocazione alla scrittura l’accompagna da sempre, comincia a scrivere a tredici anni, nonostante l’infanzia e l’adolescenza siano segnate da disgrazie familiari, un fratello infatti è alcolizzato e l’altro arrestato per piccoli furti; ma la potenza della sua immaginazione le consente di guardare la realtà che la circonda a modo suo. I numerosi ospiti a casa Deledda, spesso in città per affari o per le feste religiose, cioè gli amici del padre, propenso a coltivare amicizie in tutti i paesi che circondano Nuoro, sono la conoscenza di quei personaggi che avrebbero un giorno popolato i suoi romanzi. La giovane, che per sé non concepisce altra strada se non la scrittura, nel discorso al conferimento del Nobel lo racconta con un piccolo aneddoto molto illuminante “Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta”. Lei, con ostinazione, scrive e scrive, fino a quando a diciassette anni si vede pubblicare il racconto Sangue sardo da una rivista di moda romana. La sua famiglia intanto le è ostile ed il paese nutre diffidenza, ma lei non smette, scrive racconti e romanzi, fino al primo vero successo con La via del male (1896) recensito positivamente da Luigi Capuana. Poi la sua notorietà aumenta e quel riconoscimento le fa sognare, sempre più con insistenza, un trasferimento a Roma, sogno che diventa possibile dopo l’incontro a Cagliari, ospite della direttrice di una rivista locale, di un impiegato statale Palmiro Modesani che sposerà poco dopo.
“Avevo un irresistibile miraggio del mondo, e soprattutto di Roma. E a Roma, dopo il fulgore della giovinezza, mi costruii una casa mia dove vivo tranquilla con il mio compagno di vita ad ascoltare le ardenti parole dei miei figli giovani.” Grazie a questo matrimonio è possibile il trasferimento romano, saranno anni di intensa scrittura, di frequentazione saltuaria dei circoli letterari, con poca vita mondana ed il marito che diventa suo agente letterario, ne promuove le pubblicazioni e segue l’attività di traduzione all’estero. Questo rapporto, però, è molto inusuale per l’epoca, anche il futuro Nobel Luigi Pirandello lo guarda con attenzione ed ilarità (sembra che fosse stato proprio lui a chiamare in giro il marito della scrittrice “Grazio Deleddo”), non risparmiando giudizi poco lusinghieri a questo marito contabile e segretario. Pirandello addirittura ne fa motivo d’ispirazione per il romanzo Suo marito pubblicato nel 1911, a Firenze, nell’Edizione Quattrini. Intanto l’editore con il quale ha un contratto Emilio Treves si era rifiutato di pubblicarlo, temendone una facile identificazione con la Deledda ed il marito, più frizzanti particolari si leggono nei carteggi tra Pirandello, l’amico Ugo Ojetti e lo stesso editore Treves. Si legge, infatti, della stizza dello scrittore siciliano nel vedersi negare la pubblicazione del romanzo, complice l’interferenza della stessa Grazia Deledda, di cui Treves è anche editore, e Pirandello che si abbandona nel dire “Che povertà di spirito, che angustia mentale in quella Deledda! Non capire che, facendo così, stuzzica peggio la curiosità morbosa di questo sporco e meschino cortile di pettegolezzi che è il nostro odierno mondo letterario!” La scrittrice, invece, non può non dichiararsi irritata per un romanzo che, al di là del valore letterario, poteva fare sorgere effettivamente pettegolezzi e discredito circa il suo rapporto con il marito. Il cammino di questi due grandi, che hanno tra loro molte similitudini, non sfocerà però mai in un chiarimento diretto, il giudizio di Pirandello, del resto, non è espresso su un piano di valore letterario, piuttosto è sul piano di dovere riconoscere alla collega, di sesso femminile, qualità caratteriali e una determinazione non comune, fatto questo non propriamente scontato, per l’epoca, nei rapporti tra l’universo maschile ed il genere femminile. Intanto va alle stampe il primo romanzo elaborato a Roma, Elias Portolu, edito prima sulla rivista Nuova Antologia e poi pubblicato nel 1903, quindi segue un ritmo di scrittura costante, con molti romanzi e novelle, tra cui il celebre Cenere (1904), Canne al vento (1913) e La madre (1920), solo per ricordarne alcuni. La scrittura della Deledda è di tale forza descrittiva che non sfugge nemmeno al cinema dell’epoca, che in quegli anni ‘20 si stava già organizzando come industria culturale, celebre è la riduzione di Cenere, da parte della grande Eleonora Duse, nel 1916 per il cinema muto e il film Grazia (1929) ispirato ad una novella della scrittrice, oltre che tratto da un libretto d’opera scritto dalla stessa nel 1921. Dopo il Nobel la Deledda continua a scrivere fino alla morte, lasciando non ultimato un romanzo autobiografico che sarà pubblicato postumo con il titolo “Cosima, quasi Grazia” nella rivista Nuova Antologia nell’ottobre del 1936, la scrittrice era morta da poco il 16 agosto dello stesso anno. La vicenda umana e artistica della Deledda è molto particolare, possibile grazie anche al suo temperamento aspro e sicuramente ostinato, con una vocazione autentica e con due primati davvero importanti per l’epoca, il premio Nobel nel 1926 che non sarà assegnato a nessun’altra scrittrice italiana e la candidatura per il collegio di Nuoro nella XXIII legislatura del Regno d’Italia. Lei intanto affida soprattutto alla scrittura ed ai suoi personaggi le riflessioni sulle condizioni sociali, politiche ed economiche della sua terra, e conclude il suo discorso dicendo “Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio. Ho guardato per giorni, mesi e anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce, per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che racconta l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo”. Un’arte questa di Grazia Deledda che è un grimaldello per comprendere la Sardegna dell’epoca, ma soprattutto è grande letteratura. I suoi romanzi infatti traghettano il romanzo sardo nel Novecento letterario italiano, e non solo, rivelano l’anima isolana al pubblico continentale, che di quest’isola arcaica e misteriosa non molto conosceva, ma nella sua scrittura è contenuta la preziosità di ogni grande scrittura che riesce ad arrivare al cuore dell’uomo. In questo modo la grande letteratura acquisisce una valenza per cui tale autore è universale, anche nella sua relegazione locale, come ebbe a dire l’arcivescovo Nathan Soderblom, membro dell’Accademia Svedese, nel corso del banchetto serale tenutosi a Stoccolma per la premiazione. Che allora ben venga l’operazione di ristampa della piccola casa editrice milanese, salutata con grande interesse, perché non è mai tardi puntare i riflettori su una scrittura dagli accenti universali.