Questo è un articolo che ho iniziato a scrivere qualche anno fa e che ho cancellato più volte, nel tentativo – un po’ disperato – di rimandare un momento inevitabile, inevitabile come la morte, ma più doloroso, perché se fossi morto sul serio, non sentirei nulla, o almeno, così sappiamo. La morte di cui parlo è quella di un nome, per certi versi più spirituale e meno nota ai più. Parlo di quel momento preciso nella vita di quei poveri disgraziati che hanno avuto la malasorte di scrivere per vocazione e non per fare soldi o per rimorchiare la collega in ufficio, scopo molto più nobile e redditizio del mio, su questo non ci sono dubbi. Quel momento in cui uno apre gli occhi, guarda sulla sua scrivania e tra le copie dei libri non letti e le gocce di caffè che diventano caramello dolce e colloso, trova gli appunti per la fine del gioco, e Cortázar e gli altri stanno lì che mi guardano perché anche loro sono morti, ma non possono scrivere nessun articolo per spiegarne la ragione.
La mia morte è iniziata lentamente, a mano a mano che aumentavano i libri, libri che non ho mai contato perché come diceva Hemingway, o li conti o li scrivi. E mentre aumentavano, sentivo che il mio orizzonte si andava cancellando perché un muro di carta mi si andava ergendo davanti, ed era una sensazione abbastanza spaventosa. Ho scritto per gli ultimi vent’anni in maniera convulsiva, non c’è stato un solo giorno in cui non abbia scritto almeno una pagina, ho perso la sensibilità nelle braccia e nelle mani, che sono diventate un groviglio di tendini lesionati al punto di riuscire malapena a sollevarle, ho perso il senso della fatica e del sonno, dormendo tre ore a notte, trascurando compagne pazienti e amici fedeli che sapevano della mia relazione morbosa con la letteratura, questa puttana gelosa che non ti permette di dedicarti ad altro. Non mi sono mai fermato a chiedermi il perché, o meglio, me lo sono chiesto ogni giorno, e ogni volta non sono stato in grado di darmi una risposta. Fino ad oggi, quando ho deciso di annunciare la morte di frank iodice, la fine di una vita e l’inizio di un’altra. Un’altra libera, senza corpo, senza nome, senza voce. Un’altra in cui saranno solo i miei scritti ad arrivare nelle vostre mani, ed è in fondo ciò che davvero conta in questo bizzarro mestiere.
La prima metà della mia esistenza si è consumata su queste dita, nella sua spasmodica ricerca di un senso e di una ragione di essere, una ricerca necessariamente irrisolta, e solitaria. Mi hanno fatto sempre sorridere con tenerezza quelli che si riuniscono in gruppo per imparare a scrivere, un po’ come chi fa jogging in coppia, c’è uno che tiene il ritmo, il vero corridore, e un altro che lo segue. Io ho sempre corso da solo e il risultato è qui, è un muro di carta che non mi permette di vedere davanti a me, ma solo dietro, o tutt’al più dentro di me. Cosa anche peggiore.
Allora cosa significa questa pagliacciata? Sono morto o non sono morto? Sono vivo e fingo di essere morto? O né l’uno né l’altro? Come tanta gente a questo mondo che non sa e non vuol sapere, potrei continuare all’infinito a scrivere di un tale che scrive e per spiegarlo lo scrive, e così via, fino all’autocombustione, la botta, lo schianto, l’implosione dei sensi e della vanità. Perché – badate bene – è la vanità il nostro peggior nemico, questo ormai mi è chiaro come la luce. Ed io per combatterla ho smesso di scrivere di me stesso (oggi mi permetto un’eccezione, ma è a fin di bene) e ho iniziato a scrivere di voi, nudi, fino al sangue attaccato alle ossa, fino alla coscienza, che è ancora più insanguinata, senza compromessi, senza paura e con un’ostinazione degna solo di chi ama forte e non ne ha paura. La paura viene dopo, quando ti fermi e ti chiedi: e adesso che faccio? non so più cosa fare! e ti rimetti a sedere, perché è quello il tuo dovere, asino, zitto, studia, e non ti alzare da qui finché non fa giorno.
Perché nascondersi dietro un altro nome, allora, e non continuare a mettere questi mattoni di carta l’uno sull’altro all’infinito col mio nome sul frontespizio? Perché è questa la mia esigenza, ciò di cui ho bisogno: sparire dalla scena del mondo, un mondo che continuerò a vivisezionare per consegnarlo sul vostro tavolo, ma a cui non appartengo, perché in fondo non sono mai stato fatto di carne, ma di carta.
Ecco perché sono qui per l’ultima volta a dirvi che non ha importanza chi vi racconta una storia, purché sentiate che dietro c’è la vita e che un pezzettino di quella vita è finito sulla pagina scritta. Il resto è esercizio, immondizia, autocensura, marchette, scambio di favori. Per quanto mi riguarda, preferisco perdermi nell’oblio della parola, la parola alta, dignitosa, che non si vende e che non si compra.
Frank Iodice, data da destinarsi
CapoLavoro
Bellissimo questo scritto Frank, mi ha commosso e ispirato.
Degno di Blanchot