Non tutti gli amori sono uguali. Ci sono quelli improvvisi, viscerali, passionali e quelli che si sedimentano lentamente, che crescono dentro di noi con leggerezza, quasi senza far rumore. L’amore che ho maturato per Billie Holiday fa parte della seconda specie.
Il suo modo di cantare, così personale, unico, tipico di un’artista che ha introiettato stili e sentimenti, esperienze di vita e musicali, fino a raggiungere non solo la piena padronanza del mezzo vocale, ma la più compiuta forma di espressività musicale, inizialmente mi era distante, estraneo. Ero abituata alla precisione, all’esattezza: a uno stile classico. Amavo Ella Fitzgerald e la sua voce dolcissima, lo spelling impeccabile, il suo scatting inimitabile, lo swing. Billie Holiday iniziai ad ascoltarla quasi distrattamente, interessandomi alla sua amicizia con Lester Young, tra i sassofonisti a me più cari, e alla sua vita difficile, complicata.
Nata dall’amore adolescenziale tra una ballerina e un suonatore di banjo, Billie Holiday, nome d’arte di Eleanora Fagan, non conobbe il padre e si separò presto anche dalla giovane madre. Trascorse un’infanzia segnata dallo sfruttamento, dal lavoro e gli abusi. Subì una violenza sessuale a soli undici anni. Denunciò. Non fu creduta e anzi reclusa in riformatorio per adescamento. Fu l’inizio di una vera e propria persecuzione ad opera di Anslinger, capo del FBN (Federal Bureau of Narcotics) razzista e suprematista, nei confronti della cantante, affetta da dipendenze d’alcool e droga. Billie pagava con i bianchi il suo essere nera e, con i neri, l’avere una carnagione troppo chiara. Come tutti gli artisti neri, doveva entrare nel club in cui si sarebbe esibita dall’ingresso di servizio, restando chiusa in camerino fino all’inizio dello spettacolo. Una sera del 1939, al Café Society di New York, Billie decise di includere nel suo repertorio di standards un brano di Abel Meeropol: Strange Fruit. Al calar delle luci in sala, Billie chiudeva gli occhi e poi li riapriva per raccontare gli strani frutti che pendevano dagli alberi delle campagne del sud. Erano corpi di esseri umani quegli strani frutti. Corpi di neri che venivano impiccati dai razzisti bianchi. L’interpretazione di Billie rendeva tangibile quel paesaggio disumano, umanizzava l’orrore, il dolore, trasportava ai piedi di quei tronchi dove pendevano i cadaveri di quegli uomini e quelle donne massacrati e ammazzati per il colore della pelle. La canzone divenne presto un inno di protesta del movimento dei diritti civili. Anslinger intimò a Billie di non includerla nel suo repertorio, ma senza successo. Billie Holiday fu fatta pedinare affinché la si cogliesse in flagranza di reato mentre acquistava stupefacenti. Fu condannata a diciotto mesi di reclusione.
Il 31 maggio del 1959 Billie fu trovata incosciente nel suo appartamento. Fu immediatamente ricoverata in ospedale e nel contempo posta sotto arresto per la presenza in casa sua di sostanze stupefacenti. Le sue condizioni miglioravano finché le fu somministrato il metadone. Anslinger ordinò di cessare la somministrazione e trasferirla in reparto, privandola delle cure specifiche dovute ai pazienti critici. La fece ammanettare al letto. Proibì le visite. Le proteste fuori dall’ospedale impazzavano. Il 17 luglio il referto medico della morte indicò un edema polmonare e insufficienza cardiaca.
Di Billie Holiday si diceva che nessuno riuscisse a cantare la rabbia e il dolore con l’intensità che caratterizzavano la sua voce e le sue interpretazioni. Ed è vero. Lei si era formata sui dischi di Louis Armstrong e Bessie Smith mentre lavorava giovanissima in un bordello. Usare il grammofono del salotto era il modo in cui era pagata dalla padrona. Fu soprannominata Lady dalle colleghe all’inizio della sua carriera nei club di Harlem perché si rifiutava di ricevere tra le gambe le banconote del clienti come facevano le altre. L’amico fraterno Lester Young iniziò a chiamarla Lady Day (abbreviazione di Holiday) mentre lei coniò per lui il soprannome di Prez (il Presidente). I due formano una coppia storica del jazz degli anni Quaranta e inizio Cinquanta. Lester Young, in epoca bebop, anticipò i suoni e il fraseggio tipici del Cool con un tono unico, dolcissimo, profondo e inimitabile. Billie interpretava introiettando musica e testi nel suo vissuto, sublimando sofferenza e dolore in un’arte divenuta immortale.
Lei vola sul tempo, non esiste scansione se non quella intima, emotiva e sentimentale che le permette di impossessarsi del pezzo nella sua totalità. La sua voce non è solo l’espressione del tormento di una donna nera in epoca di persecuzione razziale, ma quella di un’artista immortale che è riuscita, nel magma scottante e fluido in cui ci barcameniamo in questa vita, a forgiare scritture di catarsi. Perché la voce di Billie è questo in fin dei conti, una vera e propria discesa negli inferi della vita con relativa risalita. E non è l’epilogo della storia che conta, ma proprio quei momenti di catarsi resi immortali dal canto, un dono incalcolabile non solo per gli amanti della musica e del jazz, ma per tutti i partigiani della bellezza e della giustizia che, nonostante tutto, è sempre possibile rintracciare in questa vita.
foto: Takashi Seida