Anna Maria Ortese, o del coraggio di dire che il mare non bagna Napoli

La Ortese appare nella sua opera letteraria così come lei stessa si descrive:

Sono una persona antipatica … diversa… Sono esigente col mondo, non vorrei che le cose fossero come sono… I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può trovarsi. Solo persone così possono amarmi. Il mondo? Il mondo è una forza ignota, tremenda, brutale. Le creature belle che pure ci sono, noi le conosciamo poco, troppo poco. …Il male vero è l’industria, è il denaro. Il male è il freddo che essi provocano; se oggi ci fosse più calore, non ci sarebbe tutto questo male. Prima gli uomini avevano a disposizione elementi favolosi di realtà, oggi hanno voluto perderli: non c’è più la campagna, non ci sono gli animali… resta solo il denaro che chiede ed impone un’altra natura, una natura artificiale… sono stanca di vedere ricchi, gente che spende troppo per vestire, che vive nell’imitazione di gente ancor più ricca. …Il desiderio è diventato il veleno. Nessuno consiglia il distacco, nessuno consiglia a nessuno: “ferma il desiderio”. Occorre fermare il desiderio. Invidio la libertà che c’era prima dell’industria.

Fuori dagli schemi imposti, non vuole confondersi nella realtà che le assegna un mondo non più aderente al suo scopo. La sua è una storia come tante, ma con la scoperta, in età giovanissima di un talento, la scrittura. Scrittura che sorprese e sorprende chi la legge in quanto quasi autodidatta. La vita ci insegna che il dolore che viviamo ci consegna conquiste, e lei lo ha conosciuto presto il dolore con la morte del fratello marinaio, Manuele. Nell’elaborazione di quel lutto lei scrive:

Tutto che ci rimane ormai di te, Manuele, è un nome solo; e dentro al petto un male che a questo nome si confonde.

E poi, quella morte insieme all’esperienza della vita stessa la porterà alla non accettazione della realtà, e come Eugenia quasi cieca nel racconto Un paio di occhiali (Il mare non bagna Napoli – Premio Speciale Viareggio per la narrativa – 1953) non vuole mettere quegli occhiali che le danno la visione dell’intollerabile realtà. La Ortese era nata a Roma ed era cresciuta, a causa della guerra e delle vicende familiari, un po’ disordinatamente tra la Puglia, la Basilicata e la Libia prima di stabilirsi a Napoli. Mi riferisco in questa analisi dell’autrice proprio al Mare non bagna Napoli espressione da lei coniata e che tutt’oggi viene usata nel linguaggio comune.  E allora viene da chiedersi: “Che cosa rappresenta il mare per Anna Maria?” Indubbiamente il dolore per il lutto di due fratelli che il mare le ha portato via, ma ciò nonostante non riesce a stare lontana dal mare, sicché sceglie due città marine per vivere, prima Napoli e poi definitivamente Rapallo. Inoltre per la Ortese il mare è analogo del Tempo “insondabile” e insieme superficie e sostanza sempre identica e sempre diversa, come la sua scrittura. La nostra “sonnambula vagante” nel suo romanzo raccoglie, passeggiando per Napoli, immagini e compone sei racconti. Si avverte il suo sguardo spaesato nell’intercettare: il ceffo, il ghigno, l’agonia, la miseria, lo squallore, il dolore.
E il suo libro non mente sulla povertà ancestrale di una Napoli che non si vede o non si vuole vedere, dove non c’è mare, né sole, né acqua, né luce. Dall’autrice, riceviamo, nel Mare, il suo giornalismo “alto”, fatto di forte denuncia sulla condizione degli ultimi, dei dimenticati. Il suo voler entrare nei Granili con il racconto La città involontaria ci porta a contatto con una realtà umana sconosciuta ai più, una sorta di inferno dantesco presente nel porto di Napoli.

Immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale furono tanti i napoletani che, rimasti senza casa, a causa dei bombardamenti, decisero di trasferirsi temporaneamente ai Granili, (un mastodontico edificio borbonico) per trovare riparo dalle intemperie in attesa di riprendere in mano le loro vite. Ed è a questo viaggio dalla luce al buio che corrispondono, idealmente, i gironi infernali di dantesca memoria: dalla vita, tutto sommato accettabile, condotta dalle famiglie che alloggiavano ai piani superiori si arrivava pian piano a stanzoni sempre più affollati e malmessi fino al degrado di coloro che, ormai privi di tutto, non anelavano ad altro che al buio imperante nel terraneo nel quale furono confinati, loro malgrado e che fungeva da filtro tra disperazione e rassegnazione. Miserabili in condizione di non vita, causa di assurdi orrori che lei ci racconta con immagini scritte, storie forti che quasi ci farebbero rinunciare alla loro lettura: un fagotto, in braccio alla sua mamma, accoglie il corpicino sporco, senza vita, di un bimbo e al suo seguito il papà con le scarpine, segno di assoluto rifiuto dell’accaduto. Continua il suo girovagare in città “la zingara sognante” e quando arriva al centro storico è sicura di poter affermare: “Qui il mare non bagna Napoli” e continua: “Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava”. Allora il mare può prendere anche la connotazione di fuga, ma non per coloro che non lo avevano mai visto o non lo ricordavano. Il Mare non bagna Napoli, appare nel 1953, quando l’Italia usciva dalla guerra piena di speranze. Napoli, in quel dopoguerra, era spaesata e la Ortese, attenta osservatrice, colse quello spaesamento. Tra il 1945 e il 1950 comincia a collaborare con la rivista “Sud” fondata da Pasquale Prunas. Di quella redazione facevano anche parte gli ancora giovanissimi intellettuali napoletani: Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Domenico Rea, Tommaso Giglio… Il periodico nacque “contro ogni classificazione, numerazione, sezionamento, contro ogni politica suddivisione del sentimento, contro ogni barriera doganale”. Quando l’Ortese si rende conto che “le discussioni lasciavano il posto alle conversazioni; la politica ritornava un motivo per ritornare sul problema di un impiego; le preoccupazioni di una carriera o solo una modesta sistemazione personale…” racconta la trasformazione dei colleghi piegati nello spirito e nella meschinità dell’utile con un realismo visionario che accresce il suo spaesamento e che conferma la sua posizione di donna scomoda capace di critiche e posizioni molto dure. Per via delle critiche mosse alle Giacchette Grigie di Monte di Dio, il Mare «fu giudicato, purtroppo, un libro “contro Napoli”», un affresco squallido e dolorante della città, ritraendola neppure lambita dal mare. Scrive l’autrice nel 1994: 

Questa “condanna” mi costò un addio, che si fece del tutto definitivo negli anni che seguirono, alla mia città. (…) mi domando se Il Mare è stato davvero un libro “contro” Napoli, e dove ho sbagliato, se ho sbagliato, nello scriverlo, e in che modo, oggi, andrebbe letto.

Forse andrebbe letto tenendo conto che si trattava di un grido di dolore non solo dell’autrice, ma di una intera umanità uscita da un conflitto mondiale, offesa dalla natura violentata dalla cultura dominante dell’utile e del denaro. Certo la sua scrittura ha un che di esaltato che palesa i segni di una autentica “nevrosi” verso il reale e uno spaesamento emotivo che la mette in crisi. In realtà la sua nevrosi rappresenta una lente d’ingrandimento per capire e per rifiutare la realtà. La lettura del Mare può essere facilmente comparata a tutti quei momenti storici di passaggio, dove il passato è andato via e il futuro non è comprensibile ai più.

Laura Bufano

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