La libertà è scomoda. Leonardo Sciascia e i professionisti dell’antimafia

Era il 1987 quando uscì il celebre articolo di Leonardo Sciascia sui professionisti dell’antimafia, innescando una polemica talmente violenta che alcuni arrivarono a insinuare – e lo insinuano ancora – una qualche connivenza dell’autore siciliano con l’ambiente mafioso. Sciascia era un uomo libero. Era un uomo che conosceva bene la materia da lui trattata. Era un siciliano giusto.
Scrivo nella speranza che molti non si accontentino dei sentito dire e della vulgata secondo la quale Sciascia commise un grave errore schierandosi contro la nomina di Borsellino a Procuratore capo di Marsala e vadano a rileggere l’articolo. Un articolo che muove da due citazioni tratte dai libri Il giorno della civetta e A ciascuno il suo. Muove, soprattutto, da un saggio di Christopher Duggan intitolato La mafia durante il fascismo. E questo è il centro focale dell’articolo. Il fascismo, fa notare Sciascia a commento del libro di Duggan, era caratterizzato, soprattutto in Sicilia, da una dialettica interna tra un’ala più conservatrice (“ordine e disciplina”) e una più progressista di ascendenza socialista. La prima uscì fortemente rafforzata dall’operato di Cesare Mori, colui il quale, a sacrificio delle libertà personali, instaurò un clima da Far West per combattere il sistema mafioso, così da lasciare campo libero all’affermazione del regime come tutti lo conosciamo.
La tesi, assai scomoda, impopolare e controcorrente di Sciascia, è che abdicare con leggi speciali allo Stato di diritto per combattere il crimine mafioso significava percorrere una strada pericolosa di matrice fascista e autoritaria, non democratica. Era questo il rischio che lo scrittore siciliano paventava nel progressivo affermarsi e consolidarsi del cosiddetto professionismo antimafia. L’esempio del sindaco di provincia che fa dell’antimafia un blasone per poi peccare nella gestione amministrativa o quello della promozione di Borsellino in deroga al sistema di anzianità previsto dalla legge vanno letti e inquadrati nel giusto contesto.
Per lo scrittore di Racalmuto la mafia era un fenomeno sociale e un apparato criminale alternativo e oppositivo a quello statale. Da vero illuminista moderno, quale fu Sciascia, la mafia poteva e doveva essere sconfitta con le armi del diritto democratico, non in deroga a quelle. Lo Stato di diritto, per Sciascia, possedeva tutti gli strumenti necessari alla lotta e al definitivo scacco al fenomeno mafioso. Utopia? Certamente. Perché lo Stato, in balia di mafia e corruzione, non può combattere se stesso. E i gialli di Sciascia, in cui non c’è individuazione e punizione del colpevole, esprimono proprio il paradosso democratico in presenza del sistema criminale e mafioso che in quello statale si è infiltrato. L’essere umano è corruttibile, certo, ma ad arginare questo fenomeno vi è la legge. La democrazia, e nella fattispecie il diritto costituzionale, devono essere il baluardo cui ancorarsi per combattere la mafia, non un ostacolo da schivare. Per Sciascia, non devono esserci magistrati specializzati nella lotta alla mafia (professionisti dell’antimafia, appunto): tutti devono essere ugualmente e parimente coinvolti nel combatterla. E a coloro i quali dimostrano memoria corta e una propensione all’eroismo dell’ultima ora, ecco uno stralcio della citazione tratta da Il giorno della civetta posta in esergo all’articolo:

Il capitano sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero nella memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti…

Un invito, un monito da parte di uno scrittore impegnato in prima linea nella lotta alla mafia a muoversi all’interno dei confini legislativi. Utopia, dicevamo. Nella lotta alla mafia lo Stato ha dovuto ricorrere a leggi speciali come il 41 bis, le leggi relative alla confisca, ecc. E, soprattutto, si è creato il cosiddetto professionismo antimafia. Politici, giornalisti, magistrati, intellettuali, scrittori hanno fatto della lotta alla mafia una missione. Molti hanno dato la vita. Altri vivono sotto scorta, rischiando di perderla quotidianamente. Si è prodotta una letteratura specifica dell’antimafia. Certa magistratura è entrata in politica. Del resto, lo ha fatto apertamente anche la mafia.
Concludo ricordando che, a proposito del suddetto articolo e della polemica che ne scaturì, a distanza di anni la vedova di Borsellino ha affermato che “Sciascia aveva capito tutto in anticipo”. Come sempre accade agli intellettuali che mettono la propria e l’altrui libertà, da conciliare al bene comune, al primo posto. 

Glenda Dollo

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