Guardami negli occhi e vieni più vicino, non lasciarti intimorire dalla forza che immagini che io abbia, però credimi, è tutta vera, quella forza è la corazza che ho costruito un pezzo sopra l’altro e in ogni tratto dei colori che vedrai e che mi appartiene, mi vedrai. Ti parlerà di me.
Lascerò che mi conoscano bene, come io conoscevo bene me, in ogni spazio di dolore sopportato eternamente. Ma spero di non tornare.
È stato bello vivere ed è stato troppo. Mi bagna leggera la pioggia, sono le lacrime che ci spendevo sopra. A volte il riflesso con i miei occhi piantati dentro, l’avrei strappato via. L’ho ritratto per restare. Anche quando la vita mi tradiva. La vita mi ha spezzata fin da quando lasciavo il grembo di mia madre, e io l’amavo questa vita, questo continuo lottare per averla vinta. Io ero quella forte, quella sfrontata, quella che non temeva la battaglia. E ho lottato fino all’ultimo e sparso semi che parlavano di me disciogliendoli nell’acqua e diluito sogni nel colore, per non aver memoria del dolore, stordita di morfina. Che dolenza la vita che mi uccideva e io continuavo a restare viva.
La mia follia? Prendermi gioco del mio stesso dolore e ridere come sa ridere soltanto un folle davanti alla tristezza. I Ricordi mi corrono incontro, si perdono nelle tele. Quelle tele che accoglievano come un abbraccio, tele a cui io mi aggrappavo per sopravvivere alla vita. Lo schianto che mi spezzava in due, la mia schiena già piegata, storta, affranta dalla vita, rumori di lamiere contorte, dolore e sangue. È lì che ti intravedo amore mio, intatto come un bimbo, e lì io mi intravedo amore mio, disfatta come cosa da gettare via. Il mio corpo trapassato, oltraggiato dall’esistenza stessa, me lo riprenderò con ogni forza, in ogni fibra per la quale starò in piedi.
Ti abbraccio, abbraccio quei nostri vent’anni avanti a noi, correrò nel mondo anche per te e chiederò al mondo spazio per esistere quando noi due ci metteremo un po’ da parte.
Galleggio intorno a grattacieli che mi esaltano. Sono sempre io.
Ora la ragazzina dall’adolescenza sfortunata, ora la donna che aspetta a letto che la vita passi e le cicatrici smettano di far desiderare la fine, ora la donna dell’artista. Libera, sempre. Attraverso un ponte per tornargli accanto, che strana metafora la vita stessa. Ho portato la mia vita con fierezza, claudicando, ma mendicando mai. Bandiera della terra che m’aveva partorita. Lo sento il calore della mia terra, accostato ai miei occhi, occhi di brace che hanno visto l’orrido volto della morte da vicino e mai nessuno può cambiarne la visione, e nonostante tutto io non mi sono arresa mai. Forse, se davvero qualche cosa mi è mancata, è quel tenere le mie mani strette al ventre, quel cullare che non posso, perché la vita ci destina ad altre cose. Attraverso spoglia e nuda, quel terreno incolto che fu l’esistenza, che impavida, fiorisce dietro me ad ogni passo.
Sono un nome che ritornerà domani, torneranno ad ammirarmi fermi, immobili, stupiti che una donna possa fare quanto un uomo, raccontare la sua gente, manovrare la sua vita, partorire le sue tele come figli da donare alla terra. Come uomo, anche di più. Il mio lavoro saprà riportami in vita e tornerò, altrove, per guardare i loro volti scrutare tutti i miei volti. Quanti dei miei volti a quelle tele ho dedicato, fragile tela, forza di vita, nell’immobilità in cui muovevo le mie mani e la mia testa quando il mondo era soltanto un luogo chiuso tra i pensieri, il mondo mio, io l’ho donato al mondo. Non datemi etichette che non mi appartengono, io sono quello che ho mostrato agli altri, il mio sorriso che resiste ad ogni colpo basso. La vita sfigurata, la vita smisurata di chi ha stretto l’aria tra le dita, e che ha creduto e poi delusa, ha ritrovato quell’insulsa umanità nel tradimento. Perdono. Altri perdono, io ti perdono. Siamo umani amore che ho tradito come hai fatto tu con me.
Ho amato donne e uomini con la stessa forza con la quale la vita mi bastonava ancora e ancora. Adesso vado, e spero sia più dolce andare via. Vado e spero di non ritornare più.