Pasolini consapevole pianificatore della propria fine. Il teorema Zigaina

Un intellettuale che non finisce mai di stupire, di provocare e illuminare. Un poeta e uno scrittore, ma anche un raffinato saggista che interviene nella letteratura, nel teatro, nella  semiologia cinematografica e delle arti figurative, oltre che acceso polemista e regista scandaloso, lo sconcerto è infatti d’obbligo ad ogni prima cinematografica di Pier Paolo Pasolini. L’ultimo suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma è un’opera postuma, concepita molto disturbante e come impossibile da vedere, che accende come sempre un dibattito tra intellettuali, censori a vario titolo e magistratura. Gli ultimi suoi anni sono sempre più cupi, Pasolini è tristemente profetico, distante dai fervori giovanili delle prime poesie dialettali scritte in friulano, in omaggio alla lingua della madre. Il vero bagno di maturità è stato Roma, grande città barocca, cattolica e permissiva – per lui  terra del possibile – dove la crescita artistica e la sua coscienza civile vivono profonde lacerazioni, mentre le condotte  corsare nel sottoproletariato delle borgate romane si fanno intense e struggenti. Un intellettuale eretico e non certo engagè – figura quest’ultima che imperversa in quegli anni ma che non gli si addice affatto – un polemista corrosivo, piuttosto, sul Corriere della Sera e non soltanto, che grida il suo verbo indigesto contro il neocapitalismo e la cultura piccolo-borghese, che inveisce contro la televisione e le sconvenienze del perbenismo sociale, che denuncia la piaga del clericalismo così all’opposto del primitivo cristianesimo che lo commuove. Tutto avviene in maniera scandalosa e incurante dei processi, delle condanne, dei dissequestri di pellicole attaccate per oscenità e pornografia. Mentre la sua  feroce critica ai costumi del tempo non si disgiunge mai dalla valutazione politica che lo obbliga a ricercare, documentarsi e raccogliere informazioni, gli saranno preziose nella stesura di Petrolio il suo ultimo romanzo-inchiesta pubblicato, forse perché troppo scottante, soltanto nel 1992 a diciassette anni dalla tragedia. Si tratta di uno scritto programmatico e stilisticamente anomalo, che denuncia il Potere politico e rinviene possibili responsabilità alla strategia della tensione di quegli anni. Lo scandalo Pasolini è però non soltanto nel corpus immenso delle sue opere, ma anche in una vicenda esistenziale la cui carne è incisa di un pianto costante e di un’irriducibile invettiva. La sua agghiacciante morte, in quella domenica del 2 novembre 1975, nel giorno dei Morti, con la TV in bianco e nero che racconta del corpo martoriato, ritrovato in un campetto del degradato Idroscalo di Ostia, è memoria ancora viva e poco scolorita. Il delitto a sfondo sessuale con tanto di confessione dell’autore, un ragazzetto aderente al profilo dei ragazzi di vita che lo scrittore amava, letterariamente e carnalmente, vedendo in essi un vitalismo autentico, assente nel perbenismo borghese della nascente società dei consumi, mette a tacere ogni altro scandalo. Lo scrittore, però, vuole che quel borgataro possa difendersi in tribunale, avere una  condanna mite, e  Pino Pelosi detto “La Rana” nella deposizione racconta:

Il regista m’ha assalito, ho perso la testa, gli ho dato una bastonata, sono poi salito in auto e scappato via. Scappando l’ho investito senza volerlo…

Un incontro mercenario che esplode nella violenza di un ultimo atto, quasi rito sacrificale, con la verità processuale consacrata nella sentenza definitiva di condanna del Pelosi nel 1979, visto sfrecciare contromano al volante della Alfa Giulia 2000 GT di Pasolini la notte del delitto, subito fermato e condotto a Rebibbia, dove confessa e il processo si chiude con la condanna. Scarcerato, molti anni più tardi, in una trasmissione televisiva prima ritratta, poi insiste sulla presenza di altri complici nella scena del delitto, dicendo:

Pasolini aveva tutto organizzato e altri tre attendevano l’arrivo mio e del poeta per completare il rito…

Una dinamica, quindi, che presenta ancora situazioni non del tutto chiarite. Anche Sergio Citti, l’amico-regista che aveva aiutato Pasolini nell’uso del romanesco per i suoi primi romanzi ambientati nelle borgate romane, entrato poi nel mondo del cinema e della sceneggiatura grazie allo scrittore, della sua tragica morte dice:

Fu una grande messa in scena

Fuori, però, da questa verità processuale e dall’ortodossia della cultura ufficiale, poco ripresa dalla grande stampa, c’è la ricostruzione di un pittore-amico di Pasolini, il friulano Giuseppe Zigaina, che rileggendo appassionatamente la produzione pasoliniana sfocia nella tesi che sia stato lo stesso Pasolini a scegliere di essere “martire per autodecisione”, offrendo al lettore/spettatore la sua opera-vita come strumento di lettura della verità. I due si conoscono nel 1946 e stringono anche un sodalizio intellettuale, il pittore collabora ad alcuni tra i film più famosi dell’amico, quindi nelle sue ricerche c’è la spinta amicale, ma anche l’urgenza intellettuale di verificare un’ipotesi, cercando risposte più precise a domande non ovvie sulla tragica fine di Pasolini. L’intellettuale che ha combattuto contro l’omologazione imperante e trasposto da cineasta la ritualità sacrificale arcaica in film come Medea può avere disseminato nella sua produzione artistica una serie di indizi e lasciato tracce di un trapasso più volte annunciato? La sua tragica fine potrebbe essere la morte ricercata e pianificata all’interno della sua opera-vita? La controversa teoria di questo pittore-amico, che con lui collaborò in Medea, Teorema e Decamerone, parte da un assunto:

…è stato lui stesso a concepire e organizzare la propria morte come un linguaggio destinato a incrementare di senso la totalità della sua opera .

L’opera Trasumanar e organizzar del 1971, un magma di versi al limite della prosa, o poesia civile, antipoetica quanto densa di pietas e realtà, contiene nove poesie Comunicato all’Ansa che sono la sequenza poetica di questo “suicidio per delega”.  Pasolini stesso, in una intervista concessa a Jean Duflot nel 1969, spiegava il titolo della raccolta poetica che pubblicherà due anni dopo, come la faccia di una stessa medaglia, il rovescio della “trasumanizzazione” (aveva preso spunto da letture dantesche e la parola è di Dante nella forma apocopata), cioè dell’ascesi spirituale, è proprio l’organizzazione.

Forse che l’oblio inquieti disperatamente il poeta, egli decide così di firmare come autore la sua morte, scegliendo il Tempo, il Luogo e la Forma di un rito sacrificale, perché: (…) non appena uno è morto si attua, della sua vita appena conclusa, una rapida sintesi. Cadono nel nulla miliardi di atti, espressioni, suoni, voci, parole e, ne sopravvivono alcune. Un numero enorme di frasi che egli ha detto in tutte le mattine, in tutti i mezzodì, le sere e le notti della sua vita, cadono in un baratro infinito e silente.

Pasolini sul Tempo già a fine degli anni Cinquanta profetizza il suo martirio scegliendo la domenica, come il giorno in cui nel lontano ’45 Guido, il fratello minore partigiano, cadde ucciso “da mano fraterna amica” nell’imboscata tesa al gruppo della Brigata Osoppo. L’opera Comunicato all’Ansa è la sua strategia comunicativa, lì fissa una prima di morte nel 1969 che poi sposta al 2 novembre del 1975, all’alba del giorno dei Morti, nella domenica che è anche il giorno sacro per eccellenza. Il Luogo viene comunicato attraverso il poemetto “Una disperata vitalità” del 1964, ispirato dal film di Jean-Luc Godard “Fino all’ultimo respiro”. Sono nove capitoli, pensati come una sceneggiatura, in cui il poeta protagonista diventa anche regista della propria morte. Pasolini “profetizza” Ostia come luogo per morire, e Hostia, in latino, significa “vittima sacrificale”, in quella colonia romana alla foce del Tevere, infatti, nel IV secolo a.C. venivano compiuti i sacrifici umani. Nell’ottavo di questi capitoli, sistemati in forma epigrafica, si legge:

Io me ne starò là, *** come colui che sulle rive del mare in cui ricomincia la vita. (…) Come un partigiano morto prima del maggio del ’45, comincerò pian piano a decompormi, nella luce straziante di quel mare, poeta e cittadino dimenticato.

Ad Ostia Pasolini aveva del resto girato Medea che doveva essere il suo ultimo film, ma la “tenerezza” dell’incontro con Maria Callas gli fa spostare la data in avanti; per il film, invece, si documenta sui sacrifici umani nelle antiche civiltà, attuati per propiziare l’abbondanza dei raccolti, e questo simbolismo è come un sugello del suo futuro martirio che dovrà garantirgli cospicui raccolti culturali. La Forma di un rito sacrificale si ritrova in questo film “documentario etnologico”, indicato dal regista come “autobiografico”, la scena del sacrificio umano degli agricoltori è infatti l’anticipazione del rito che avrebbe “ripetuto” a Ostia, proponendosi come vittima sacrificale.  Il movente, se di giallo intellettuale si vuole parlare, è racchiuso nel Pasolini che esprime il suo lacerante conflitto: “O esprimersi e morire o restare inespressi e mortali”, dove l’immortalità è quella del significato più comune, cioè “che non muore”, così la vittima afferma la sua libertà scegliendo essa stessa il proprio carnefice. L’amata libertà descritta nei suoi Scritti Corsari, articoli pubblicati dal 1973 al 1975 su importanti giornali e riviste, in cui lo scrittore attribuisce a sé e alla sua opera la connotazione di uomo-autore libero, senza autorevolezze precostituite, intellettuale infedele e poco accondiscendente, sempre oscillante tra profezia letteraria e drammatica realtà, e che sol rispetta l’unico patto che ha con i suoi lettori. Lo scandalo Pasolini reclama la visione d’insieme di un corpus di opere complesso e di una vita sempre contro  all’insegna del transculturale e transmediale. A sua volta Zigaina e le sue pubblicazioni, quattro libri dal 1997 in avanti, sono una tesi approfondita per questo  giallo puramente intellettuale che poca fortuna ha avuto in  patria. A Monaco, invece, nel 2002 l’artista viene accolto alla Bayerische Akademie der Schönene Künste non solo per i suoi meriti artistici (pittorici!) ma anche per aver decodificato il linguaggio criptico del celebre amico. Il teorema Zigaina sottrae così il delitto Pasolini alla comoda e liberatoria interpretazione del delitto a sfondo omosessuale, come sancito in sentenza; l’autore lo pone come debito al grande amico, di cui conosce l’angoscia esistenziale, la sacrale religiosità che non si identifica con la Chiesa cattolica, il suo essere oltre ogni etichetta politica, di destra o di sinistra, anticlericale e antiborghese per eccellenza. E, soprattutto, sempre molto critico della corruzione del Potere e delle sue arbitrarie liturgie di conservazione. La terza ipotesi, infatti,  è quella di un delitto dalla matrice politica. L’amica del poeta Oriana Fallaci non a caso, a ridosso della tragedia, aveva segnalato quanto Pasolini fosse scomodo al Potere, con la  Democrazia Cristiama messa sul banco degli imputati, insieme alla società dei consumi che ne accondiscendeva liturgie e riti collettivi. Era lecito, quindi,  che quel Potere vedesse la sua reputazione in pericolo, primo tra tutti proprio il partito di maggioranza relativa. Il romanzo-inchiesta Petrolio diventa, quindi, un raffinato e ossessivo strumento che Pasolini brandisce accusando quella politica collusa con le stragi di Stato. Sul  Corriere il 14 novembre 1974 firma infatti un articolo, forte e provocatorio,  Cos’è questo golpe? Io so indicando i responsabili delle stragi di Brescia e dell’Italicus del 1974 e raccontando degli aiuti della Cia ad un gruppo politico, operante in fede anticomunista, che aveva tenuto in piedi l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato. Pasolini sa senza avere le prove. Quel tragico rapporto mercenario omosessuale mette a tacere ogni altra pista, eventuale o possibile. E quel j’accuse al Potere si scontra con la conservazione granitica del Potere stesso, che si coagula intorno a precisi interessi, a difesa dell’esistente. Resta, pertanto, plausibile che lo  scrittore ne sia rimasto schiacciato. L’ipotesi di Giuseppe Zigaina, invece, anch’essa accidentata e cosparsa di precisi indizi, di misteriose e plausibili consonanze, resta molto isolata e controversa, nonostante il pericolo sia diverso dalla tesi del complotto politico. L’ostracismo il suo autore lo addebita al fatto che l’indagine sia avvenuta fuori dai luoghi di cultura più ufficiali, deputati alla ricerca filologica, è per questo fortemente osteggiata. Intanto i protagonisti citati sono oggi tutti morti, ma resta la sensazione di uno spazio ancora irrisolto. La  raccolta dell’opera omnia di Pasolini per i Meridiani Einaudi, curata da Walter Siti, Silvia De Laude e Nico Naldini, intanto ha ripreso per la prima volta il materiale di Giuseppe Zigaina ma “al solo scopo di stravolgerlo” come ebbe a dichiarare lo stesso autore in un’intervista. Il materiale è comunque tanto, suggestivo ed inquietante, e non è detto che giovani menti aperte alla ricerca critica e filologica possano adoperarlo, senza liquidarlo per presunta superiorità di posizione, e farne motivo di appassionata analisi, quello che forse la curiosità intellettuale dello stesso Pasolini avrebbe voluto, mai fermo di fronte a ostacoli di sorta. 

Marisa Paladino

Fonti: Pasolini e la morte, Un giallo puramente intellettuale, Giuseppe Zigaina, Marsilio 2005 

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