Sono trascorsi ormai dieci anni da quando ho incontrato Peter Cameron. L’umido caldo estivo che di solito ghermiva Bologna era arrivato con un mese di anticipo. Era maggio, da inizio anno ero nuovamente solo e la mia mente si concentrava sulla presentazione di un libro che mi apprestavo per la prima volta a condurre per conto della libreria in cui allora lavoravo. Si trattava di Coral Glynn di Peter Cameron, da poco tradotto in italiano. Fui scelto per porre le domande all’autore poiché Cameron era tra gli autori contemporanei uno di quelli che più amavo e i suoi libri avevano accompagnato alcuni dei momenti più significativi della mia vita di lettore. C’è sempre un certo timore quando ti viene offerta l’opportunità di incontrare un artista che conosci soltanto attraverso la lente alterata delle sue opere e quel timore si trascinò per tutto quel caldissimo mese di maggio, mentre mi dividevo tra il lavoro quotidiano e la rilettura dei libri di Cameron per preparare le domande che gli avrei fatto il giorno in cui l’avrei incontrato di fronte a un pubblico che si preannunciava numeroso. Come si usa dire, il giorno fatidico giunse e le mie paure di restare deluso furono fugate dalla sorpresa di trovare un uomo colmo di dolcezza e umiltà, capace di infondere una serena gioia grazie a parole quasi sussurrate che raccontavano di tante pagine lette con passione e di altrettanta curiosità per chi attraversava la sua strada di essere umano. La presentazione del libro andò molto bene, la cena che seguì fu addirittura più emozionante e ancora oggi porto dentro di me il ricordo trasognato dell’intera giornata passata accanto a Peter Cameron. Vi fu però un momento preciso di quell’incontro, un momento tra quando Cameron mi fu presentato e quando ci ritrovammo davanti al pubblico, che custodisco come un dono prezioso. Fu quando ci eclissammo prima dell’evento e rimasti soli in una saletta vuota accanto alla libreria, cominciammo a parlare di noi e dei libri che amavamo. Scoprimmo così di avere moltissime passioni letterarie in comune, parlammo dei libri che desideravamo leggere e ci scambiammo pensieri su quegli autori che da pochissimo avevamo scoperto. In mezzo a quei nomi proferiti a fil di voce, mentre oltre la parete della stanza attendevano impazienti i suoi lettori, Cameron fece quello di una scrittrice inglese che rappresentava la sua più recente sorpresa e nominandola, vidi i suoi occhi brillare per la felicità. Quel nome non mi era del tutto estraneo, malgrado ciò non riuscivo a ricordare in quale preciso momento lo avessi sentito prima di allora e pensando esclusivamente in termini letterari, mi ci volle un po’ per far luce sul mistero che accompagnava il mio personale ricordo di Penelope Gilliatt.
Nata a Londra nel 1932, Penelope Gilliatt fu una artista inquieta e una finissima indagatrice della solitudine silenziosa che pervade chi è incapace di adeguarsi alle giostre continue della realtà moderna. Abilissima scrittrice di racconti, grazie alla sua passione per il cinema si ritrovò molto presto a diventare firma di punta del New Yorker, occupandosi per l’appunto delle pagine dedicate alla critica cinematografica. Queste prime notizie, recuperate a suo tempo dopo le parole di Cameron, avrebbero dovuto già mettermi all’erta e farmi capire perché il nome di Penelope Gilliatt possedeva un suono familiare. Così non fu, non ancora perlomeno. I pezzi che la Gilliatt scrisse per il prestigioso periodico statunitense suscitarono unanime ammirazione da parte di lettori e colleghi per via della rara capacità dell’autrice di evocare in maniera chiara e potente figure in ascesa o già affermate nel campo della cinematografia come Bergman, Renoir, Bunuel, Tati e Woody Allen. I suoi efficacissimi ritratti non solo esploravano l’opera di questi giganti della settima arte, ne indagavano al contempo i più reconditi pensieri della sfera privata grazie a una conoscenza individuale e a una ammirazione reciproca, e calandosi lei stessa nei suoi articoli con le proprie memorie personali, Penelope Gilliatt creò una cifra unica di racconto che, se da un lato si allontanava dal classico modo di recensire un film, dall’altro riusciva a ipnotizzare schiere di lettori non necessariamente appassionati di cinema. Nel 1965 la Gilliatt pubblicò il suo primo romanzo dal titolo One By One, nerissima storia di una oscura peste che si abbatteva su Londra e che incideva nel ménage già problematico di una coppia della media borghesia inglese. Con le sue atmosfere kafkiane e il suo penetrante senso di smarrimento senza requie, il romanzo destò l’ammirazione di un uomo poco più grande di Penelope Gilliatt, che quella percezione di pericoloso isolamento lo provava fin dall’adolescenza. John Schlesinger, questo il nome dell’uomo, si era fatto conoscere nei primi anni ‘60 come uno dei più talentuosi cineasti del Free cinema, avendo alle spalle opere memorabili che si erano imposte per la forza innovativa del linguaggio e dei contenuti del tutto peculiari.
L’incontro tra Schlesinger e la Gilliatt fu quello tra un uomo solo, gay dichiarato in un’epoca in cui esserlo in Inghilterra era un reato, e una donna alla costante ricerca del suo posto nel mondo, divisa tra relazioni con uomini incapaci di dare pienezza d’amore e il desiderio di affermare il proprio sicuro talento come autrice. Il regista era in procinto di partire per Hollywood dove, senza che lo potesse immaginare, l’attendeva il set di quel Midnight Cowboy che l’avrebbe consegnato alla storia del cinema, facendogli vincere un Oscar.
La scrittrice era impegnata su più fronti, tra la scrittura di racconti e recensioni e progetti di romanzi che cercava di portare a termine rubando il tempo all’impegno con il New Yorker diventato ormai pressante. Si ripromisero un nuovo incontro. Soprattutto decisero che avrebbero lavorato insieme. Fu a questo punto delle mie ricerche che nella mia mente il mistero si sciolse all’improvviso e come se fosse arrivato un cielo sereno dopo un terribile temporale, capii perché sapevo chi fosse stata Penelope Gilliatt e perché l’avevo ammirata. Oltre all’immenso amore per la lettura, mio padre mi aveva trasmesso una passione divorante per il cinema. Fin da bambino, così come lui non poneva limitazioni ai libri che leggevo, ugualmente faceva per i film da vedere, quasi sempre assieme e senza alcun pregiudizio. John Schlesinger era uno degli autori che più avevano colpito il mio immaginario di giovane cinefilo e un suo film in particolare rimane tuttora tra le opere più feconde per la mia formazione. Schlesinger lo diresse nel 1971, si intitola Sunday Bloody Sunday e a scriverlo era stata Penelope Gilliatt.
Ambientato in una Londra in pieno fermento socioculturale a cavallo tra i cruciali anni ’60 e i ’70, il film racconta una atipica passione a tre vissuta senza timori alla luce del sole. Bob è un giovanissimo designer dalla irrefrenabile vitalità che ambisce alla fama, Daniel è un medico ebreo che ha superato da un po’ la mezza età e Alex è una borghese divorziata che si occupa di consulenza del lavoro. Complice una solitudine che pare non aver fine, Daniel e Alex si innamorano perdutamente di Bob, il quale ricambia con trasporto questo amore pur sapendo che per lui rappresenta solo una momentanea distrazione nel mezzo del cammino che lo dovrà portare alla fama. Uniti in questa inconsueta famiglia, i tre proseguono questa relazione fino al momento in cui Bob comunicherà loro la sua imminente partenza per New York per continuare la sua caccia al successo oltre oceano. Di colpo Daniel e Alex si ritrovano nuovamente soli, imprigionati in grigie esistenze prive di scopo perché prive d’amore e nella speranza poco convinta che Bob possa un giorno o l’altro fare ritorno da loro, si avvicinano sempre più stringendo un solido legame di amicizia in grado forse di scalfire quel senso di non appartenenza al mondo che li lacera da sempre. E per lenire quelle inquietudini costanti, sceglieranno di incontrarsi tutte quelle “maledette” domeniche in cui la tetra città in cui vivono sembra farli sentire ancora più degli estranei.
Autentica gemma di una stagione ricchissima di talenti, Sunday Bloody Sunday fu il concreto incontro di due spiriti affini che misero in scena un connubio perfetto tra parola e immagine per raccontare un personale profondo disagio rispetto a ciò che li circondava, trasformandolo in una precisa, riuscita e intensissima invocazione d’amore. Il film divenne a grande velocità e meritatamente un autentico oggetto di culto, confermando Schlesinger come uno dei migliori cineasti della sua generazione e assicurando a Penelope Gilliatt il definitivo riconoscimento di un talento che, partito da molteplici esperienze, aveva rivelato la sua piena maturità grazie alla scrittura per il cinema. L’amicizia tra i due proseguì negli anni che seguirono il film. Con il passare del tempo il talento di Schlesinger – che morirà nel 2003 – scemò gradualmente, complice forse il trasferimento in America e una industria cinematografica sempre più cinica o forse l’aver incontrato una inaspettata felicità grazie al fotografo Michael Childers, con il quale visse più di trent’anni. Penelope Gilliatt morirà invece a Londra nel 1993 senza il conforto di un amore pieno e dopo aver logorato il proprio immane talento nel corso di una lunga e strenua battaglia contro l’alcolismo. Scorrendo le loro fotografie dei tempi di Sunday Bloody Sunday, rivedo i sorrisi complici di due anime fragili che nel loro fortuito incontro avevano trovato un momento di pace. Ripensando a Daniel e Alex, i personaggi del film che Penelope Gilliatt aveva modellato sull’amico John e su se stessa, non posso che condividere la chiusura di quella magnifica storia d’amore: soli certo, ma amici e paghi nonostante tutto della felicità goduta per aver tanto amato.