Non ricordo quando ho cominciato sul serio a non prestare più attenzione al giudizio degli altri. Forse è trascorso troppo tempo o forse è stato nel momento in cui il brusio che ci circonda ogni giorno è diventato un frastuono assordante, echeggiando opinioni non richieste e giudizi lapidari che si sono identificati in via definitiva con la libertà di fare il maggior male possibile al prossimo. Quel che un tempo mi urtava davvero erano i limiti dell’immaginazione altrui e sebbene oggi mi attraversino senza lasciare ferite evidenti, mi infastidiscono ancora. Da almeno un paio di decenni la realtà in cui viviamo appare molto più ricettiva, capace di andare oltre gli steccati imposti da derive di natura ideologica o religiosa. Ciò per l’appunto è mera apparenza, perché alla prova dei fatti le letture dell’esperienza umana continuano a essere rinchiuse entro gabbie di ogni sorta. Intendiamoci, è sempre successo e malgrado tutto, così continuerà a essere. La differenza rispetto al passato consiste nel ritenerci liberi da preconcetti per via dell’immagine di poche realtà privilegiate offerta a ripetizione dai media come modello universale, mentre la concretezza dell’esperienza quotidiana mai diventa di pubblico dominio. Così a chi si impegna nella personale ricerca di un senso esplorando differenti possibilità che magari contemplano anche un percorso di fede senza i rigidi vincoli imposti dagli uomini, vengono con insistenza rinfacciate contraddizioni o disonestà. O nel peggiore dei casi può capitare di essere glorificati per un singolo aspetto della propria vita e restare del tutto ignorati sul resto per meschini calcoli politici. Questa estate ho visto un film che mi ha spinto a riflettere sulla pochezza con la quale spieghiamo l’esperienza altrui. Ammiravo il lavoro dell’autore di questo film da molti anni e soprattutto mi era noto il personaggio di cui si raccontava la vita perché in gioventù avevo letto le sue poesie. La pellicola a cui mi riferisco è Benediction di Terence Davies e il poeta di cui si narra la storia è Siegfried Sassoon, una delle più enigmatiche figure della letteratura inglese del secolo scorso. Ciò che alla prima mi aveva scosso del film di Davies era che poco ricordavo dei versi di Sassoon e quasi nulla sapevo della sua vita per nulla inquadrabile all’interno degli inamovibili confini interpretativi a cui siamo da sempre abituati.
Erano i miei primi anni di università quando, complice una biografia di Samuel Beckett, sono stato attratto dalla letteratura inglese e nel pieno di quella infatuazione ho avuto sotto gli occhi i versi di Sassoon. Tuttavia, solo ora, a distanza di venticinque anni e solo dopo aver ammirato il film a lui dedicato, ho ripreso in mano le sue poesie e le ho lette come se fosse la prima volta, restando sbalordito dalla loro forza e riconoscendo nella vita accidentata e in perenne ricerca di Siegfried Sassoon frammenti di ciò che è stato il mio percorso fino a qui. Siegfried Sassoon nacque nel 1886 in una assai composita famiglia del Kent, un padre ebreo proveniente da una agiata famiglia di commercianti indiani e una madre di fede anglicana alla cui passione per la musica di Wagner il poeta deve il suo nome di battesimo. Malgrado suo padre fosse stato diseredato per aver sposato una donna non ebrea, il patrimonio della stimata famiglia di artisti della madre garantì comunque a Siegfried una giovinezza tranquilla, anche se priva di lussi. Da ragazzo, Sassoon appariva come il tipico rappresentante della buona borghesia del suo tempo: poco interessato allo studio, preferiva dedicarsi alla caccia e al cricket e, grazie alla sua bellezza e a un carattere estroverso, riusciva a non passare mai inosservato in società. Come molti suoi coetanei, si dedicò più per diletto che per vocazione alla poesia, pubblicando alcuni volumi di versi dai toni blandamente sentimentali che passarono del tutto inosservati. Si trattava di un giovane come tanti, senza alcun talento particolare o idea originale, ligio all’etichetta e con una strada già tracciata. Nulla lasciava presagire che di lì a poco una guerra insensata non solo avrebbe cambiato drasticamente il volto del mondo, ma sarebbe riuscita a investire con tale impeto la corazza di banalità che avvolgeva lo spirito senza pace di Siegfried Sassoon facendola sbriciolare, per rivelarne una delle personalità più insolite del ‘900.
Si respirava aria di patriottismo poco prima dell’estate 1914 e una attesa nervosa pervadeva lo spirito dei ragazzi di una intera generazione che sarebbero piombati a breve nell’incubo delle trincee. Allo scoppio del conflitto, Siegfried era già in servizio da mesi e senza aver compreso appieno la catastrofe che si stava affacciando sui suoli europei, si comportava come il buon soldato inglese gentiluomo rispettoso dei doveri che gli erano stati inculcati fin da bambino. Bastò tuttavia meno di un anno al fronte per fargli abbandonare quegli abiti culturali che gli avevano cucito addosso e che lui portava per la comodità che regala l’essere come tutti gli altri. Hamo, il più giovane dei suoi fratelli, cade a Gallipoli nella primavera del 1915. Per Siegfried il dolore è immenso e mentre cerca di fare i conti con l’indicibile ora che la sua corazza di protezione è crollata miseramente, avviene il primo dei tanti incontri che caratterizzeranno la sua esistenza guidata da esplorazioni e scoperte. Anche se di nove anni più giovane rispetto a Sassoon, Robert Graves ha già idee precise sul suo futuro, sui sentimenti che nutre verso la madrepatria e soprattutto sulla poesia. Tra i due nasce una amicizia destinata a durare per il resto delle loro vite. Grazie a un confronto serrato tra i due futuri poeti, Siegfried abbandonerà il dilettantismo romantico dei fatui esordi e abbraccerà nei versi di questo periodo uno sguardo crudo, amarissimo e privo di retorica che trasmetterà un tale ritratto disumano della guerra da scandalizzare una opinione pubblica ormai assuefatta alla propaganda ufficiale. Sarà il battesimo del fuoco di uno dei massimi poeti inglesi del secolo breve. La guerra proseguiva, morivano uno alla volta alcuni dei più cari amici d’infanzia di Siegfried e la follia che lo circondava sembrava impossessarsi di lui, conducendolo a imprese dissennate in cui il confine tra coraggio e suicidio si faceva sempre più labile. E malgrado decorazioni e onorificenze, durante un periodo di licenza Siegfried decide di denunciare pubblicamente l’inutile carneficina che sta spazzando via una caterva di giovani vite. Appoggiato dall’amico Bertrand Russell e dalla cerchia di intellettuali inglesi che esprimevano un fermo pacifismo, Siegfried scrisse e rese di pubblico dominio la celeberrima A Soldier’s Declaration, una intransigente lettera di ripudio della guerra, la cui eco giunse fino al Parlamento di Londra. Non potendo processarlo per via della sua fama di poeta presso i soldati e dei riconoscimenti al valore ottenuti per il coraggio dimostrato in battaglia, Siegfried fu ricoverato in un ospedale militare di Edimburgo con la diagnosi di nevrastenia.
Qui avvenne per lui un altro fondamentale incontro, quello con il giovanissimo poeta Wilfred Owen. Sassoon stringe con Owen una forte amicizia e lo incoraggia a credere nel valore universale della poesia. Per entrambi sembra che l’amicizia si trasformi ben presto in un sentimento più intenso, che l’improvviso ritorno al fronte non permetterà loro di approfondire. Sono gli ultimi scampoli del conflitto che porteranno il colpo definitivo per Siegfried: ferito alla testa, saprà solo durante il suo ricovero in un ospedale da campo della morte in battaglia di Owen a pochi giorni dalla fine della guerra.
La carneficina che aveva insanguinato l’intero continente europeo si era da poco conclusa e un Siegfried Sassoon poco più che trentenne si affacciava su una nuova epoca che prometteva pace e prosperità. Anche il Siegfried poco più che trentenne era un uomo nuovo, ma dentro di lui non vi era più un briciolo di pace e della prosperità non sapeva che farsene. Di certo non aveva più alcuna paura a mostrarsi per ciò che in realtà era e mai più avrebbe indossato gli abiti soffocanti dell’inglese medio dalle buone maniere impeccabili e indifferente alle emozioni. Con gli anni trascorsi in mezzo alla morte come base, cominciò per lui un inesausto cammino alla ricerca del senso ultimo dell’esistenza, il solo e unico che precede ogni motivo di gioia e ogni pienezza di spirito. I primi passi lo condussero a manifestare simpatie socialiste e a viaggiare per il mondo al fine di ampliare i propri orizzonti culturali. Occupandosi delle pagine letterarie del Daily Herald venne a conoscenza di tutto quel che accadeva nella cultura inglese del tempo, riuscendo contemporaneamente a fare pratica nella scrittura in prosa. A quel punto la sua arte prese due strade parallele. In prosa nacque la Sherston trilogy, composta da tre romanzi autobiografici di ispirazione dichiaratamente proustiana, che pubblicati tra il 1928 e il 1936 erano destinati a diventare all’istante un classico della letteratura inglese novecentesca. Tramite i versi diede invece vita a un universo poetico nel quale l’amore era privato di qualsiasi ovvietà e affrontato nelle sue molteplici fattezze di asprezza e gioia, affanno e prostrazione, confermando Sassoon come uno dei maggiori poeti del suo tempo. E fu proprio l’amore al centro di un’altra rivoluzione nella sua vita. Decise infatti di non nascondersi più, di vivere apertamente le proprie relazioni con altri uomini, fino al giorno in cui arrivò l’incontro decisivo, quella passione che tutto travolge e tutto infiamma. Stephen Tennant era un giovane aristocratico, protagonista delle cronache mondane per via degli eccessi di quel gruppo passato alla storia come Bright Young People, vale a dire quei nati agli inizi del ‘900 che non avevano fatto esperienza della guerra e che godevano di una serie di libertà certo dovute al loro censo ma anche al clima culturale meno rigido che percorreva la società inglese degli anni ’20 e ’30. Presentati da amici comuni, Siegfried e Stephen furono immediatamente attratti l’uno dall’altro, cominciando una relazione tumultuosa destinata a durare oltre un decennio. Troppo diversi, l’uno costantemente tormentato dalla propria ricerca personale che pareva non appartenere a quell’epoca, l’altro in perfetta sintonia con quei tempi di evasione, infedeltà e sbornie continue tanto da diventare una autentica icona immortalata nei romanzi degli amici e sodali Evelyn Waugh e Nancy Mitford, finirono con il troncare il rapporto al principio degli anni ’30. Bisognoso della pace di un focolare domestico, Siegfried sorprese tutti sposando la giovanissima Hester Gatty e con la nascita di un figlio nel 1936, sembrò che l’irrequieto poeta avesse trovato la serenità. Non fu così. Il divorzio arrivò presto e dopo anni in cui non si erano più visti, Siegfried e Stephen si ritrovarono. Un’altra guerra non meno brutale era terminata da poco, accrescendo le tenebre che da quella precedente si erano impossessate della mente e del cuore di Siegfried. Uno Stephen più maturo era capace ora di dare a Siegfried quella stabilità che negli anni trascorsi assieme non gli era stato possibile offrire. Era troppo tardi, Siegfried aveva iniziato un nuovo tragitto: si convertì al cattolicesimo nel 1957 e si isolò totalmente in una residenza della campagna inglese. Morì il primo settembre del 1967, una settimana prima del suo ottantunesimo compleanno. Rare le persone che ebbero modo di vederlo negli anni tra la conversione e la morte. Tra queste vi fu Stephen, che aveva accettato la scelta di Siegfried e aveva trasformato l’amore in una salda e duratura amicizia. Resta un mistero, quello di una vita che ne ha racchiuse tantissime altre e quello del silenzio degli ultimi anni, sui quali mai sapremo sciogliere l’interrogativo: era riuscito Siegfried a trovare un senso alla sua vita? Forse solo Stephen avrebbe potuto rispondere a questa domanda. Nondimeno, morto Siegfried, Stephen si ritirò a vita rigorosamente privata. Morirà nel 1987. Non parlò mai, ne rese mai pubblico tramite biografie o scritti altri il suo amore per Siegfried.
Dopo aver visto il film che Terence Davies gli ha dedicato, mentre rileggevo le opere di Siegfried Sassoon, sono incappato in una serie di articoli online che mi hanno mostrato una volta di più la totale mancanza di immaginazione, la pochezza di pensiero e la malafede radicata nelle profondità di questi tempi meschini. In ciascuno di questi testi, a seconda della ideologia di chi scriveva, Siegfried Sassoon diventava una icona gay o un patriota fanatico o un martire della fede cattolica. Non fu nulla di tutto questo. Nel periodo in cui in Inghilterra gli omosessuali venivano arrestati, a lui fu risparmiato il carcere per via del suo censo e delle medaglie avute per aver combattuto al fronte. Le stesse medaglie che lui gettò in un fiume. Le sue poesie e la celebre lettera di rifiuto della guerra testimoniano che egli fu tutto fuorché un fanatico. E della sua fede non fece una bandiera contro qualcuno, ne la impiegò per rinnegare ciò che era stata la sua vita. Davanti al complesso mistero di una simile esistenza che tante altre ne racchiude, servirebbe porsi con umiltà senza alzare inutili e rivoltanti bandiere di appartenenza. Soprattutto servirebbe l’identico silenzio con cui lo stesso Sassoon si era posto davanti al mistero della propria vita, ben sapendo che essa non apparteneva che a lui. Una vita che ai miei occhi rimane una benedizione senza confini e la cui irriducibile unicità è ben sintetizzata dalle parole di Siegfried:
In me the tiger sniffs the rose