Non te l’ho detto, ma sono sposata, e non è la prima volta che mi innamoro di una donna

Dunque, da dove cominciare? Il mare è infinito. E questa nostra storia, si chiede Jackie, come è iniziata? Forse quel venerdì mattina nella galleria d’arte, a guardare i dipinti di quel tizio belga i cui genitori avevano una profumeria. Amava Fritz, questo pittore, ma non raggiunse mai le vette estatiche della gioia, dice Jackie; dipinse invece raffiche di vento su coste desolate. Sylviane invece pensa che sia iniziato un’ora dopo, dice Jackie, quando ci siamo tenuti per mano per la prima volta in un parco, vicino al chiosco degli hot dog, con me a farle le fusa sussurrandole il verso d’una canzoncina spericolata. Primavera. Due settimane prima della quarantena. La prima impressione di Sylviane? Una a cui le cose accadono, dice Jackie, ma la mia angolazione è distorta da un amore svitato dei classici e una visione stralunata del destino come astenia della volontà. A conti fatti, chi seduce chi? Ad ogni modo, lei è il cervo nella luce screziata del bosco, io l’artista travestita da lupo che verrà prevedibilmente scuoiata dai Repressi Indispettiti da tanto gaudio, dice Jackie, i risentiti che immondano fin dal chiarore del mondo i nostri umili piaceri coi loro divieti stitici sbraitati da pulpiti olezzanti.

Non te l’ho detto, ma io sono sposata, dice Jackie d’un tratto. E non è la prima volta che m’innamoro d’una donna, ma per Sylviane ho perso la testa. Magari per lei questo amore è una scialuppa, dice Jackie, da lasciare sulla sabbia una volta che approda all’altra sponda. Ma per per me non è una stella che al mattino se ne va. Oh no no no, dice Jackie. Ad ogni modo, amo la bellezza del viaggio, e non penso alla meta. Cosa ti porta a voler fare psicoterapia? chiedo doverosamente, e un tantino spazientito. Da dove cominciare, dice Jackie, il mare è infinito … Beh, potrei cominciare dalla piazza dove abita Sylviane, che prende il nome da un antico ducato, un luogo che rivisito spesso nel sogno, alle 2 di notte o in lunghi pomeriggi infrasettimanali con la primavera che spietata avanza e genera lillà dalla terra morta, esclama Jackie scusandosi per le citazioni e per timore di dire cose irrilevanti. Continua, dico, dando un’occhiata all’orologio e al cielo là fuori perché fa bene all’anima. Continua pure, tutto è rilevante, soprattutto l’irrilevante. Va bene, dice Jackie. Dunque, nel video clip che m’ha mandato al tempo Sylviane sorride in primo piano e parla lenta con lo sguardo dritto all’obiettivo, e posso quasi toccare la vita pulsante nelle sue membra divine. Mi amava allora la nuotatrice del blu profondo, l’esploratrice degli abissi. E adesso? Mi ama ancora? M’ama, non m’ama? Quello che voglio, dice Jackie alzando lo sguardo al soffitto, è mordicchiare quelle sue natiche celestiali e poi baciarle le labbra di fragola, e sentire il suo riso argenteo, la voce simile a quella di Angela Carter. Scusami, sto divagando, dice Jackie. Continua pure, dico. Non posso continuare, dice Jackie; devo continuare. Ma tutto ciò a cui riesco a pensare è quel breve video clip in bianco e nero di lei sdraiata sull’erba primaverile intrisa d’acqua di mare. Il suo respiro lento, dice Jackie, e lo sguardo al cielo di pasqua con il luminoso corpo eterico del giovane eterodosso rabbino che ascende le nuvole gravide e gli occhi di lei da dopoamore ed io sopra di lei la mia fragola di bosco a baciarla tutta a baciarla dappertutto carezzando il suo volto aristocratico e i capelli annodati, dice Jackie, un ornamento al suo bel viso. Non riesco a pensare ad altro che a quel clip che trasmette  significati al volo, che trasmette assenza su spiagge musicali, un addio a tutte le metafisiche della presenza, a tutte le fisime dell’eminenza. Presenza? No, grazie. Il vasto corpo dell’alba, dice Jackie, la dea personificata e giammai transustanziata in esangue archetipo. Archetipi? No, grazie, dice Jackie con una smorfia. Voglio che lei mi desideri come una parigina bene in vacanza in Nord Africa osserva furtiva una donna algerina che esce da una nuotata e sogna ad occhi aperti le mani che le accarezzano i fianchi, dice Jackie, la lingua lambisce il ventre, le labbra scrutano pazienti l’intero paesaggio ad occhi aperti e umidi al vertice d’un sogno. Prim’ancora dei voli poetici voglio che mi desideri nel corpo, dice Jackie, prim’ancora dell’arte povera o dell’arte benestante ora dominante, perché è questo corpo che versifica e dipinge, questo corpo sulla sabbia umida d’estate o sotto una quercia con il suono della pioggia fra i rami nella luce screziata, dice Jackie, la pioggia che comincia al momento stesso che lei raggiunge la vetta del piacere– o è forse l’abisso, petite mort e così via? – bagnata e seminuda, e le si increspa lo sguardo di gioia, le si increspa il volto patrizio alla mia fragola di bosco, dice Jackie, mentre a entrambi è regalata visita fugage nel reame degli dei. Le stringo i fianchi con le mani e me lo ricordo bene, dice Jackie, con quale grazia con quale veemenza ondeggiava su di me, lo ricordo bene come mi baciò esitante dicendo oramai ogni resistenza è futile. Voglio che desideri il mio corpo sussurrando glossolalia sulle mie labbra ardenti e che inviti la mia lingua in ogni fessura invocando insieme gli dei leggiadri dell’amore corrisposto, dice Jackie, mentre cantiamo in contrappunto lodi alla santa primavera nel giorno della luna nuova. Ammettiamolo pure, dice Jackie dopo un lungo sospiro, innamorarsi stanca. Diciamocelo pure, da un momento all’altro Sylviane potrebbe invaghirsi d’una ragazza o d’un tizio più giovane, un qualsiasi Johnnie o Jane, una qualsiasi delle sue amiche con membra più sinuose e droghe intelligenti e la saggezza spumeggiante che deriva dal surfing. Spero non ti dispiaccia se continuo così, dice Jackie. Continua pure, dico, è tutto rilevante. La mia amata sirena, dice Jackie, mi ha parlato della bellezza di un’immersione profonda nel mare e nel dover infine accettare il dover risalire in superfice per respirare. Ha ragione, dice Jackie, perché è fin troppo facile romanticheggiare sulla leggerezza trasfigurata di chi ha visto l’abisso, ma ben altra cosa sentirsi mancare il respiro.

E rendersene conto vuol dire evitare il banale corteggiamento della morte, dice Jackie, caro al romanticismo dozzinale. Chissà, dico interrompendola, forse l’istinto di morte ha meno a che fare con la finitezza che con l’eccesso. Forse il seno cattivo, continuo a dire rincrescendomi d’aver aperto bocca,  è il seno sessuale, la soglia che ci espone alla paura dell’eccesso, al terrore del piccolo io d’esser sopraffatto dai magnifici mostri del sacro (perdona le frottole misticheggianti, mi precipito a dire con un mezzo sorriso) e di accantonare l’auto-preservazione. E che dire poi, dice Jackie, ignorando del tutto sia il mio intermezzo concettoso che le attenuanti, di questo garbuglio uomo/donna? Non è forse vero che il voler essere sopraffatti dall’amore ci rende un po’ tutti donne? Non sono certa, dice Jackie, se è ammissibile pensare una cosa simile, figuriamoci dirlo. Nel caso mio per esempio, sono lesbica, sono etero? Importa davvero? E a chi? Fremo dal dirle che non importa affatto, che essere uomo per esempio è soltanto una tappa nel viaggio e vorrei citarle Roland Barthes un homme n’est pas feminisé parce qui’il est inversé mais parce qui’il est amoureux; vorrei dirle che a un uomo innamorato gli si abbassa il testosterone, ma lascio perdere ricordando il saggio consiglio del mio supervisore di non intromettermi con le mie storie e di ascoltare. Ma invece di ascoltare penso ad occhi aperti a quando l’essenzialismo stringe la presa su un poveretto, soffocandolo con lo sciovinismo delle gare del getto di pipì nei cortili di scuola o nella politica da “libertari” in pigiama sui social. Penso a Egisto su una roccia desolata che ascolta i mormorii segreti degli innamorati traghettato non da gabbiani o sule ma sulla cresta di zoom o skype e che come lui neanch’io sono poeta di corte, non fanno per me gli egri distici recitati al ritmo di sciocchezze neoliberali. E che dire della pandemia? Si chiede Jackie nel frattempo. E qual è il nesso fra l’amore e la peste? Oh no, mi dico, ci siamo, fra un po’ citerà Garcia Marquez e Camus e compagnia bella. Sto per sbadigliare ma con mia sorpresa Jackie cita invece la nobildonna Pia de’ Tolomei, Siena mi fe’, disfecemi Maremma il cui bastardissimo marito, sospettandola d’adulterio, la rinchiuse nel suo castello impregnato di vapori nocivi che l’uccisero. E c’è di più, dice Jackie, che ora cita Shelley a tutto spiano, Non sollevate il velo dipinto che i viventi chiamano Vita, perché la pandemia o la crisi o l’amore o la malattia lo sollevano il velo, dice Jackie, e l’ha detto pure l’ex arcivescovo: quando le cose vanno male, scopri ciò che davvero conta. Ma c’è una svolta, s’interrompe Jackie, oltre le banali seghe di redenzione: la crisi stimola il desiderio. Vallo a spiegare ai Repressi Indispettiti! Prendi Aschenbach per esempio, infiammato alla vista di Tadzio e per nulla impaurito dalla peste che giunse nella languida città dal delta del Gange passando per l’Hindustan e la Cina e l’Afghanistan e la Persia e lungo le rotte dei convogli minacciò l’Astrakhan e suscitò terrore perfino a Mosca. E visto che ci siamo, dice Jackie, forse io sono un po’ come Thomas Mann, omosessuale di nascosto e platonico, sai cosa voglio dire, chiede Jackie, come si dice closeted in italiano? Porta pazienza, dice Jackie, Morte a Venezia si può ben considerare l’unico film di Antonioni – o era Visconti? – in cui lascia da parte il nomadismo. Pensa alla splendida Monica Vitti ne L’Avventura, La Notte, e Deserto Rosso, dice Jackie. Cosa anima il nomadismo nei suoi film? L’erotismo! Il desiderio è circolazione, movimento. In ogni angolo del sensorio, viaggia, è emozione in cui risiede mutamento. Desiderio errante, irregolare; amore irrequieto, amore mio mi manchi. E cos’è l’avventura in Antonioni se non un incursione nell’erotico, ricerca confusa del sublime e del profano, dice Jackie, una combinazione vincente secondo Sylviane che fra parentesi ama Lou Salomé? Trattengo l’impulso di dire a Jackie che secondo me Lou tradì Nietzsche interpretando male il suo peregrinare nel mare aperto come una scoperta del vecchio, alla maniera di Cristoforo Colombo che non era fra parentesi un ‘grande esploratore’ ma un brutale viceré delle isole caraibiche che ordinò il massacro degli indigeni. Mi sono distratto, e quando riprendo ad ascoltare, Jackie cita Salomè: l’erotismo occupa una posizione intermedia fra due grandi categorie di sentimento, l’egoismo e l’altruismo. Voglio essere ognuno e ogni cosa, dice Jackie. Prodigalità dell’essere. Voglio avere tutto. Viel Glück, frau Salomé mi dico silenziosamente. Quindi, dice Jackie, che succede quando il nomadismo s’interrompe? Finiamo per costruire teleologie varie, no? Andare da qualche parte, indaffarati nel raggiungimento illusorio d’una meta, come se il mondo fosse progettato da un Contabile. Dove va il fiume? si chiede Jackie. Al mare, senza inizio né fine, il fiume della vita, il mare della morte, no? Lo sa bene Aschenbach che è pericoloso rimanere a Venezia ma vi rimane lo stesso, e viene infettato dal colera dopo aver mangiato fragole comprate ad un angolo di strada. Fragole! Esclama Jackie, e s’interrompe. Le chiedo cosa significhino le fragole per lei o è una domanda idiota? Non vedo tutto nero, dice Jackie, sai. Mi viene da pensare al cavaliere delle crociate nel Settimo Sigillo, dice Jackie, che mangiucchia le fragole di un eterno, effimero presente offertegli dalla famiglia di saltimbanchi. Pensa a Boccaccio e al suo degno imitatore Sir Geoffrey Chaucer, dice Jackie. Nel Decamerone la pestilenza si è diffusa e come il fuoco brucia materiale secco o oleoso che incontra nel suo avanzare. Come il desidero, no? Dice Jackie. Bisogna stare attenti alla paura, ci renderà tutti metafisici di serie B; in ogni caso tutti i metafisici sono pensatori di serie B, no? dice Jackie,  sia che blaterino su Dio, Gaia, la Natura, o l’eiaculazione precoce di Dio, il Big Bang. Jackie, dico interrompendola, siamo giunti alla fine della seduta. Alla prossima settimana, stessa ora?

Manu Bazzano

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