Esistono libri che giungono fino a noi per vie che solo in apparenza ci possono sembrare impervie. Sono cresciuto con l’amore per il cinema, soprattutto da quando ho ricordi mi hanno affascinato tutte quelle storie capaci di cucire insieme un vivido ritratto dei tempi e una complessa figura femminile. Gli sguardi frastagliati che si posavano intensi su complessi passaggi epocali mi si imprimevano nella testa e vi rimanevano a lungo, tanto che ancora oggi riuscirei a citare a memoria intere sequenze, miriadi di volti e centinaia di dialoghi di film che hanno segnato la mia giovinezza. Ciò accadeva anche con i libri. Non solo, spesso mi capitava quasi di affondare nelle pagine di un libro e riemergervi un attimo prima di lacerare qualunque legame con la realtà solo grazie al brano della colonna sonora di un film evocato non so per quale oscuro motivo dalla mia testa oppure, molto più semplicemente e sempre per ragioni a me ignote, chiuso quel che stavo leggendo, incappavo in un film la cui visione mi faceva lo stesso effetto del libro da poco terminato. Non c’era una cinematografia che evitavo, ma come per i libri, avevo le mie preferenze. Così gli anni della mia adolescenza, quel momento magico in cui l’appetito per tutto ciò che non si conosce pare non avere mai una fine, furono certo segnati da tutto il cinema classico americano, ma oltremodo lo furono dal cinema europeo e in particolare da un amore mai sopito per quello che arrivava dalle terre di lingua tedesca. Questa predilezione riguardava solo in parte la mia storia intima di persona nata e cresciuta in una complessa terra di confine dove si parlavano più lingue, una delle quali è il tedesco. Questo mio debole aveva anche molto a che vedere con la passione per la letteratura tedesca e per i modi inediti in cui il cinema tedesco sembrava in grado di trasferire su pellicola la propria cultura. A conti fatti l’inclinazione per quel cinema derivava dall’amore che nutrivo per la lettura a prescindere da qualsiasi confine o limitazione e così fu per il Wenders che reinterpretava le cupezze di Patricia Highsmith o l’Herzog che sfidava le pagine più ruvide di Chatwin, ma anche per quegli autori che ritornavano con dedizione inquieta sulle pagine a loro più care, come uno Schloendorff alle prese con le tensioni meditative di Musil o uno Schroeter che si cimentava con i dolorosi corpo a corpo linguistici di Ingeborg Bachmann. Tuttavia, per nessuna di queste opere ho sperimentato quella forsennata fame amorosa intrisa di attese interminabili, rifiuti ostinati e dipendenza senza tregua destata in me dalla molteplice varietà dei lavori di Rainer Werner Fassbinder. E fu in questa caotica fase di scoperta in cui le eroine di Fassbinder rubavano gran parte delle mie ore dedicate allo studio, che incappai con stupore nelle pagine di un libro prodigioso scritto da una donna che non era vissuta così a lungo per vederlo pubblicato. Si trattava di Franziska Linkerhand, il capolavoro postumo di Brigitte Reimann.
La breve parabola esistenziale di Brigitte Reimann e quella di Franziska, la protagonista del suo straordinario romanzo, sembrano uscite da un film coevo di Fassbinder. Così nella mia mente parole e immagini si confondono, Brigitte e Franziska assumono i volti e i tratti caratteriali spigolosi e sofferenti di creature fassbinderiane come Veronika Voss o Martha, Maria Braun o Petra von Kant. Nata nel 1933 in una cittadina della Sassonia, prima di quattro figli in una famiglia che annoverava antenati tipografi e orafi, Brigitte Reimann decise di diventare una scrittrice durante un lungo periodo di isolamento dovuto alla poliomielite che contrasse all’età di quattordici anni. Dopo la laurea cominciò una lunga serie di esperienze lavorative che la portarono in principio a fare l’insegnante e in seguito, dopo una parentesi come libraia, a praticare il giornalismo. Spirito irrequieto, incapace di sottostare alle leggi dettate dalla rigida morale comunista vigente nell’allora Germania Est, visse intense passioni che la condussero a una lenta e progressiva disillusione sulla natura spesso fragilissima delle relazioni umane. Al contempo, cominciò a dubitare prima e a rivedere in seguito la spinta ideale che le aveva mostrato in gioventù il socialismo reale come la via privilegiata per liberare l’umanità dallo sfruttamento del capitale e dall’esercizio del potere di pochi privilegiati.
Gli anni ‘60 furono ricchi di rivolgimenti personali e politici per Brigitte Reimann: il dramma di un aborto spontaneo la portò a un tentativo di suicidio e il rifiuto deciso di sottoscrivere presso l’Associazione degli scrittori la dichiarazione che approvava pubblicamente l’invasione della Cecoslovacchia a opera delle truppe sovietiche per stroncare la Primavera di Praga, finirono con isolare sempre più la Reimann dalla cultura ufficiale del suo paese. Nel corso di questo tormentato momento, mentre era impegnata nella stesura di quello che sarebbe diventato il suo libro più importante, nonché uno dei capolavori della letteratura tedesca del secondo Novecento, alla scrittrice fu diagnostico il cancro. Nonostante l’ostinata battaglia contro la malattia, Brigitte Reimann morì a Berlino Est in un freddo giorno di febbraio del 1973. Franziska Linkerhand, il libro a cui aveva dedicato tutta se stessa fino agli ultimi istanti, uscì postumo e pesantemente censurato nel 1974. Solo nel 1998, grazie al ritrovamento tra le carte della scrittrice di un dattiloscritto sopravvissuto, il romanzo è alla fine apparso in versione integrale nelle librerie tedesche prima e nel resto del mondo poi.
Protagonista dalla potente impronta autobiografica, Franziska Linkerhand è una giovane della media borghesia tedesca nata poco prima della guerra e cresciuta con salde convinzioni comuniste nella nuova Germania Est del socialismo reale creata a seguito della spartizione del paese fra i due blocchi contrapposti. Fresca di laurea in architettura, determinata e ambiziosa, Franziska verrà mandata agli estremi confini orientali per contribuire alla costruzione di Neustadt, libera città proiettata in un futuro radioso, simbolo stesso della retorica asfissiante dei funzionari del partito al governo. Piena di progetti e sorretta da un entusiasmo al principio incrollabile, Franziska si scontrerà presto con i pesanti limiti creativi imposti dal potere e l’opprimente rigore ideologico dei burocrati deputati al controllo dei lavori, cominciando a nutrire la rassegnazione dei colleghi più anziani che ormai da tempo nascondono il loro spirito disilluso dietro la maschera di una pacata obbedienza allo stato inalterabile delle cose. Raccontando la vita di Franziska Linkerhand dalla nascita agli anni ‘60, Brigitte Reimann non soltanto fornisce un lucido ritratto di se stessa ma realizza al medesimo tempo uno spietato romanzo corale capace di mettere in scena la sua generazione, quella nata poco prima del Secondo conflitto mondiale che si ritrovò a crescere nella Germania divisa dalle potenze vincitrici. Nello specifico, quella generazione cresciuta nella Germania comunista che inizialmente ne aveva abbracciato con fervore valori e stili di vita per poi arrivare a rigettarli con fermezza, scatenando una insensata repressione. Questo fino alla caduta del Muro di Berlino, emblema di uno dei peggiori regimi autoritari del secondo dopoguerra che aveva originato un mondo tetro e oppressivo tramite false promesse di libertà in grado di sedurre moltitudini sparse in tutto il pianeta.
Nella stesura di Franziska Linkerhand, Brigitte Reimann adotterà forme stilistiche allora sconosciute nel suo paese perché provenienti dal romanzo modernista, considerato borghese e pertanto decadente. Per mezzo dell’alternanza di una oggettiva terza persona con una serie ininterrotta di flussi di coscienza, la scrittrice tradisce un mero racconto lineare riuscendo mediante continue anticipazioni degli eventi e digressioni sugli stati d’animo a ritrarre in maniera sorprendente e moderna i mille volti e le infinite anime di una donna con i suoi espliciti desideri, le sue improrogabili aspirazioni e i suoi inappellabili rifiuti. Riusciamo così a capire perché questa immagine di donna in anticipo sui tempi era allora invisa al regime, che non a caso intervenne con tagli pesanti sulla prima edizione del romanzo. Con il resoconto di un pezzo di storia europea solo apparentemente sepolto dal tempo, questo libro ci offre la figura di una nostra contemporanea e ci restituisce appieno una scrittrice come Brigitte Reimann, che solo per via della cupezza dei tempi e dell’inesorabilità del male ha proferito parole di sconfitta:
Sie hatte den Zweikampf verloren, noch ehe sie ihn antrat