La tentazione di abbandonarsi al vuoto nella vita romanzesca di Janice Galloway

Non possiedo neppure un briciolo di memoria visiva. Al contrario, fin dalla più tenera età, la mente mi si è presentata come un registratore con annesso e capiente archivio. Che si tratti di brandelli di una qualsiasi conversazione o delle pagine di un testo letto a voce alta per studio o per semplice diletto, tutto viene registrato e poi conservato in quella che ho immaginato essere una stanza spaziosa e ordinata della mia testa, presieduta da un custode attento a non smarrire alcunché. Oggi questo magazzino carico di parole va costantemente allenato, quando ero più giovane invece mi bastava poco per estrarre un rigo detto anni prima da chi in quel momento mi stava davanti e notare un cambio di idea o una contraddizione, o peggio, smascherare una menzogna. Più di ogni altra cosa, ciò mi ha portato a interrogarmi sui modi in cui raccontiamo a noi stessi e soprattutto agli altri le nostre vite. Non mi riferisco alle cosiddette bugie bianche per cui inventiamo scuse poco plausibili per rifiutare un invito a cena o nel peggiore dei casi sosteniamo di essere felici quando in realtà così non è. Viceversa alludo agli infiniti modi di raccontare le nostre esperienze con l’atteggiamento di chi si trova dinanzi a un pubblico e deve interpretare una parte. Per cui eccoci altruisti e tolleranti, progressisti o credenti a seconda delle circostanze quando in concreto non siamo nulla di tutto questo. Al contrario, spesso è una mai ammessa meschinità spacciata per fragilità a spingerci verso un resoconto che ci migliora agli occhi degli altri e a quelli del nostro ego. Nel corso dei secoli svariate discipline e numerosi pensatori hanno tentato di dare una interpretazione a questa volontà di adottare narrazioni di noi stessi differenti dalla realtà. In mezzo a questa caterva di vite che assumiamo come nostre, oggi moltiplicate dalla presenza sempre più invasiva dei social media, vi sono poi quelle esistenze gravate dal bisogno quasi fisico di un rapporto con la verità. Per questo credo esista la letteratura e la gioia che riesce immancabilmente a procurarmi. Scrittori di ogni epoca hanno affrontato se stessi sulla pagina senza alcuna corazza e non certo per abbellirsi agli occhi dei lettori. Potrei fare un lunghissimo elenco di autori classici e moderni che senza negare il proprio intimo sé hanno mostrato personalità ben poco allettanti ma autentiche. Poiché oggi pare più difficile rintracciare scrittori di questa risma, proverò a raccontare di un libro scoperto molti anni fa ormai, il cui sapiente scandaglio dell’animo umano alla ricerca del vero mi colpì tra i contemporanei come pochi altri. Si tratta di This is Not About Me della scrittrice scozzese Janice Galloway.

Se mettessimo sulla carta attraverso pochi nudi fatti la vita di Janice Galloway, non sembrerebbe tanto distante da quella di ciascuno di noi. È un’umile famiglia scozzese quella in cui la Galloway nasce nel 1955. Ultima figlia di una coppia male assortita, a quattro anni Janice vive la separazione dei genitori e a sei la morte prematura del padre. Crescendo manifesterà precocemente un intenso interesse per la lettura e le arti in genere, al punto che ottenuto un diploma superiore si iscriverà all’Università di Glasgow proprio per apprendere la letteratura inglese e studiare musica. Sono questi gli anni in cui matura la decisione di diventare scrittrice mentre assapora le gioie di essere lontana da casa e le emozioni legate alle tante scoperte che lei accoglie con una curiosità mai sazia. Al termine degli studi l’attende un decennio di grandi sacrifici. Alternando l’insegnamento al lavoro come cameriera si impegna nella stesura del suo primo romanzo, pubblicato nel 1989 con il titolo The Trick is to Keep Breathing. Nel giro di una manciata di anni, Janice Galloway si afferma in via definitiva come una delle voci più singolari della letteratura scozzese di fine ‘900. Accanto ai romanzi che seguiranno l’esordio la Galloway sperimenterà altre forme espressive come la poesia e il racconto, fino a quei saggi che con regolarità cominciano a uscire fin dal 1999 sul Times Literary Supplement. Attualmente Janice Galloway risiede in Scozia con il marito. Dal loro matrimonio è nato un figlio.

Fino a qui, nulla di anomalo nel percorso di una donna dall’infanzia alla maturità, una donna con precise passioni che ha inseguito con fermezza la propria vocazione di scrittrice. Tuttavia a un certo punto del suo cammino, Janice Galloway ha sentito la necessità di voltarsi indietro e riconsiderare il passato, forse timorosa che l’opera letteraria fin lì prodotta non avesse reso appieno una esistenza tutt’altro che lineare. E per superare le limitazioni connaturate giocoforza al romanzesco, ha optato per una forma di autobiografia che pur non rinunciando del tutto alla finzione, fosse però in grado di illuminare con luce cruda quelle zone d’ombra della sua vita che fino allora non parevano essere emerse appieno nei libri che aveva scritto. Superati da poco i cinquanta anni, Janice Galloway diede alle stampe il primo di due volumi da lei ribattezzati con sornione umorismo anti-memoirs e davanti alle pagine di This is Not About Me del 2008 e di All Made Up del 2012, i lettori che ormai da tempo la seguivano con attenzione, videro una Janice che era il risultato di aspri e mai placati grovigli di dolore.
A questo punto, i fatti che poco sopra ho elencato e che servivano a riassumere le tappe salienti della vita di Janice Galloway assumono attraverso le parole del suo anti-memoir un sapore amarissimo, eppure più autentico. Nella Scozia tra gli anni ‘50 e i ‘60, in una famiglia dalle condizioni economiche estremamente precarie, una bambina di nome Janice cresce tra un padre violento e incapace di rinunciare alla bottiglia e una madre del tutto indifferente ai figli che lei stessa ha partorito. Janice è più introversa rispetto alle bambine della sua età e a causa di una evidente balbuzie trascorre le sue giornate in silenzio, coltivando un proprio universo interiore che se da un lato la isola dalle persone che la circondano, dall’altro le conferisce il dono di una osservazione circospetta e dettagliata che più tardi tanto le sarà utile per raccontare storie. In un simile contesto, la separazione dei genitori è inevitabile e i traumi che comporta per i figli della coppia sono resi dalla Galloway in pagine di affilata peculiarità. Prigioniero dei propri demoni intrisi di alcol e rabbia, il padre di Janice morirà poco dopo il divorzio e l’abbandono della famiglia, lasciando malgrado tutto un vuoto atroce nel mondo affettivo della futura scrittrice, che forse solo la successiva creatività ha parzialmente colmato. Ritrovandosi in una misera soffitta con accanto una madre che preda della propria meschina cattiveria rinfaccerà a Janice di non averla mai desiderata, la Galloway si chiuderà sempre più in se stessa. E mentre la sorella più grande finirà con il replicare il modello materno, riservando al marito e al figlio piccolo i medesimi egoismi sadici ricevuti fin dall’infanzia, le fondamenta del rifugio di Janice fatte di note musicali e pagine di libri le permetteranno di abbandonare un passo alla volta i terrori e le vessazioni, diventando la donna e la scrittrice che è oggi.

Non si tratta del consueto ritratto dell’artista da giovane, è innanzitutto un inno al potere dello sguardo che per mezzo di una feroce ironia e di un pungente disincanto nulla nasconde al lettore. Janice Galloway seleziona quei momenti in cui il dolore ha rischiato di soverchiare l’innocenza e la vita ha subito la tentazione di abbandonarsi al vuoto. Non c’è crudeltà nelle parole della scrittrice, nemmeno davanti a quelle donne come la madre e la sorella che travolte dalle atrocità dell’esistenza hanno reagito riversando le loro bieche frustrazioni sui più deboli. Non c’è nemmeno quell’esibire sentimenti che non si sono mai posseduti o che sono spariti per troppa sofferenza, ben sapendo la Galloway che niente è più lontano dalla verità che il sentimentalismo. Resta infine l’intima consapevolezza di Janice Galloway che tra i sensi è la vista il sicuro complice della luce:

No matter how dark the room gets I can always see

Alex Marcolla

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