Il mio dovere è dire ai miei alunni: siate gli imperativi rivoluzionari di John Lennon

I tessuti fioriti, i jeans a campana, le campiture pop di Andy Wahrol, il femminismo, le minigonne, la giacca di pelle, occhiali giganteschi, borse a tracolla, accessori coloratissimi. Se penso agli anni ‘70 penso al coloratissimo mondo degli hippies. Ma questi anni caratterizzati da creatività e voglia di progresso in realtà si intrecciano a una politicizzazione del quotidiano che porta con sé ferite che sembrano tramandarsi di continuo. Gli anni ‘70 sono anche gli anni delle contestazioni giovanili che degenerano, gli anni delle vacanze di massa da casello a casello, gli anni del consumismo “da bere”, gli anni della bambina vietnamita che cerca di sfuggire disperata dai bombardamenti, gli anni della rivoluzione per alzata di mano, in cui ogni aspetto della vita quotidiana, dall’aborto al rapimento Moro, diventa una questione sociale. Le storie di un tempo mi trasportano in quell’eco di dissolvenze che dice l’urgenza di trattenere il ricordo, per non commettere più gli stessi errori. Quelle immagini di ragazzi che camminano imbracciando cartelloni di ribellione mi percuotono a colpi di rock and roll e fumogeni. Immagini vivide che hanno regalato alla fragilità umana la promessa di un poi migliore.

Nel 1971 John Lennon ha inciso uno dei suoi album più amati. L’album dell’immaginazione, l’album che è un inno alla pace, che colpisce le coscienze. L’album che diventa una riflessione di speranza per un futuro senza niente per cui combattere, senza niente per cui morire. Un atto rivoluzionario racchiuso in sette lettere. O una parola, anzi un imperativo: Imagine.

La canzone, genuina e immediata, vuole smuovere una umanità priva di direzione, decorata da ghirlande e buone intenzioni. Lennon ci chiede di immaginare. Ci chiede di incastrare pensieri felici come mondi senza confini, senza proprietà, senza religioni. Una poesia visiva, la canzone che è diventata un inno alla pace, che accosta parole erranti, parole impalpabili, lievi, visionarie. I pensieri, sempre all’imperativo, si inscrivono nello sguardo del lettore attraverso sogni impalpabili come paesaggi infiniti, erranti come solitudini in cammino, testardi come venti che cambiano.

Una grammatica dell’orientamento nella realtà dell’esistenza che si mostra invece come consapevolezza storica: mentre leggo e immagino, accompagnata dalla voce di speranza del cantante, la mia mente mi restituisce l’eco malinconica di una terra spaccata, di bocche assetate di soluzioni, braccia sfinite dalle armi. Il montaggio delle immagini, l’immaginare un mondo senza nulla per cui uccidere o morire, senza nessun desiderio di onnipotenza, mi fa affondare in un apprendere emotivo, una coscienza viscerale, una messa a fuoco in assenza del mondo, che si appropria delle sfumature raschiando via il tangibile. Sembra che Lennon proceda accostando, provando, mappando, scrivendo con l’immaginazione i suoi desideri, i desideri di un sognatore, come in un flusso di coscienza che ti costringe a guardarle, a desiderarle insieme, a cercare disperatamente una spiegazione.

D’altra parte, la poesia è l’unico posto in cui ci è permesso di fare cose che di solito non facciamo. Come qualche anno prima aveva scritto Yoko Ono, la compagna di John Lennon,  solo se lo immaginiamo, potremmo essere in grado di ascoltare il rumore della terra che ruota su se stessa, o di concentrarci sul fumo di una sigaretta, o pensare alla neve che cade tra due persone che parlano, o di praticare un taglio in una borsa piena di semi di ogni tipo e lasciarla in un punto in cui c’è vento, o guardare un cielo illuminato da migliaia di soli, o raccogliere in una buca le gocce (lacrime?) che piovono dalle nuvole.

A partire da questo imperativo, ho chiesto ai miei alunni di immaginare un mondo senza guerra. In un momento che sembra lontano dalla pace, che sembra lontano dalla stabilità, ho chiesto ai miei alunni degli imperativi. Per non cadere nella categoria degli obbedienti, per non obbedire a quelli che vogliono aderire totalmente e senza riserve alla massa, a quelli che preferiscono tacere piuttosto che non apparire diversi. “Quello che ti insegneranno è il conformismo” scriveva Pasolini. Noi docenti abbiamo il dovere di avvisare i nostri ragazzi che è così: ci stanno insegnando a essere obbedienti, ad abbassare la testa. Ci insegnano ad essere infelici, a non essere liberi di scegliere. Per essere liberi bisogna imparare a orientarsi in questa confusione, ad annusare il vento e la pioggia gocciolare dalle nuvole, a non mascherarsi. Ma soprattutto a brillare. Perché “ci insegneranno a non splendere” e noi professori dobbiamo essere vicino a loro, ai nostri fragili e delicati ragazzi, quelli che passano da un corridoio all’altro, da un’aula all’altra, da una responsabilità all’altra, ma soprattutto quelli che un giorno, fuori dalla scuola, non dovranno solo diventare, dovranno essere. Dovranno essere gli imperativi rivoluzionari, decisivi, esatti che hanno scelto con cura.

Quando ho chiesto loro di ispirarsi alle parole di John Lennon è stato come un fiume in piena: Immagina di vivere in un mondo senza pregiudizi, dove ognuno può essere libero di superare le sue paure; Immagina di vivere in un mondo in cui non esistono i senzatetto, dove ognuno può godersi il caldo davanti a un camino; Immagina un mondo senza tradimenti, in cui ognuno mantiene intatti i propri sentimenti; Immagina la terra sgretolarsi. Tu prendi un filo e incomincia a cucirne i pezzi.
Poi sono arrivati gli imperativi: Brillate, svegliatevi, distinguetevi, organizzatevi, guardatevi negli occhi, costruite, sognate, abbiate coraggio, siate come una poesia.

E siamo ancora qui, con un blocco di futuro indicativo che solo i nostri ragazzi possono cambiare, nella traccia nascosta di un poi, che deve ancora arrivare, ma quando arriverà farà rumore, perché i nostri ragazzi, i ragazzi che possono ancora cambiare qualcosa, saranno – ne sono certa – come una poesia.

Lara Carbonara

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