Il poeta di Perdido Street e la sua relazione con Simone De Beauvoir

Simone de Beauvoir era intimidita dalle emozioni. Mentre nei suoi numerosi saggi e romanzi queste appaiono stentate, le lettere al suo amante di Chicago Nelson Algren rivelano ben altro. Parigi m’annoia, è buia e monotona – scrive il 18 maggio del 1947, dopo la loro prima separazione – forse è il mio cuore ad essersi bloccato. Il mio cuore è ancora a New York, all’angolo di Broadway dove ci siamo salutati; è nella mia casa di Chicago, accanto a te… Con te il piacere stesso era amore, e adesso anche questo dolore è amore. Dobbiamo provare ogni tipo di amore. Ma godremo ancora della gioia di un nuovo incontro.

Perché tale divario fra lettere e opere? De Beauvoir stessa lo attribuisce al linguaggio. È bello scrivere nel mio inglese rozzo, disse a Algren, perché in quel caso non faccio letteratura ma m’esprimo in modo immediato. È proverbialmente difficile scrivere dell’amore. Nelle lettere, alleviata dal peso della sua funzione pubblica, ci riuscì magnificamente – fortuitamente. Come con la morte e il sole, non si può guardare all’amore direttamente senza diventare ciechi o peggio, senza soccombere all’insolenza. Quando lesse Wild Palms di Faulkner, De Beauvoir rimase senza fiato dinanzi all’intensità erotica del romanzo. Nel suo romanzo del 1954 I Mandarini, dedicato ad Algren, e nel quale quest’ultimo appare nei panni del personaggio Lewis Brogan, il loro amore è descritto invece con metodico distacco. Perfino la scena del loro primo momento d’intimità, teneramente raccontato nelle lettere, nel romanzo è filtrato da gelida ironia. La narratrice si diletta nell’incontrare un esemplare americano: lo scrittore progressivo autodidatta. I Mandarini è un libro manierato, in cui De Beauvoir coglie un tratto essenziale di Algren, uomo e scrittore che pur non esigendo molto dall’esistenza è animato da una grande sete di vita. Nonostante il tono ampolloso, il romanzo trasmette il suo amore per un uomo capace di essere al tempo stesso modesto e appassionato. Se le lettere ad Algren sono così belle, è perché sono indirizzate a lui. È perché con nessuno al mondo De Beauvoir seppe esprimersi come con lui. Fino al giorno del loro incontro, la trentanovenne Simone era una donna provinciale e borghese. Una vita protetta: convento da bambina, studentessa di filosofia alla Sorbona, insegnante e autrice con un posto a tavola nel Club esistenzialista maschile della rive gauche.

Concedendomi fantasticherie sul loro amore, avverto la delizia di una gioia trattenuta dalla distanza. Avverto la fuga provvisoria dal tempo lineare che ritorna uguale e inesorabile con ogni commiato.  Me li immagino a braccetto: lei lo prende in giro per aver aperto un ombrello troppo piccolo nella pioggia gelida d’una notte d’inverno a Chicago. Lui ammira a fior di pelle le sue curve slanciate. A lei piace la sua voce esitante, poco più d’un sussurro. Sogno a occhi aperti la loro stanchezza, la fiacca leggiadra del dopoamore accolta come prova tangibile della presenza dell’altro dopo il distacco.

Presto subentrarono difficoltà. Prevedibili: lo struggimento e un Atlantico di distanza. La fiamma strepita in stanze d’albergo o in soggiorni smaglianti; sfavilla sotto un cielo freddo, poi tramuta in dolore per l’assenza dell’altro, un dolore che nessuna lode spirituale all’anelito può curare. Nelle difficoltà, ognuno si rifugia nel suo luogo prescelto. Per lei, lealtà a Sartre, ai suoi lettori e discepoli, alla sua personalità sempre più pubblica. Per lui, devozione alla sua missione di Dostevskij di Division Street, la zona di Chicago popolata da immigrati polacchi e italiani e fonte d’ispirazione. Simone difende Parigi (“Non posso vivere unicamente per l’amore e la felicità, non posso rinunciare a scrivere nell’unico posto dove la mia scrittura ha significato”). Nelson ribatte difendendo Chicago (“Il mio compito è scrivere di Chicago e posso farlo soltanto qui”).

Per Algren, Chicago “aveva solo due volti, uno malfatto, l’altro malmesso, entrambi infelici”. La sua vita fu vissuta accanto a ladruncoli, tossici, prostitute, vagabondi, spacciatori e l’intera gamma di diseredati e impenitenti che dimorano nelle città e dipingono vicoli e strade di urgenza e cupa bellezza. I suoi racconti, raccolti in The Neon Wilderness (1947), e i suoi romanzi, ad esempio Walk on the Wild Side (1956), bruciano d’una intensità diversa da quella che alimentava la rarefatta letteratura parigina pubblicata nella rivista Les Temps Modernes o nel suo equivalente newyorkese Partisan Review. Fino alla data del suo romanzo di successo The Man with the Golden Arm (1949), Algren si guadagnava da vivere come mazziere al tavolo di poker e poteva vantarsi di un motivo singolare per essere finito in galera: il furto di una macchina da scrivere. La sua scrittura è agonizzante, realistica, influenzata da Zola, Cechov, i realisti russi come Kuprin. Algren era il poeta delle strade, il poeta degli sconfitti. I destini intrecciati e gli incontri casuali descritti in A Walk on the Wild Side sono scanditi da un ritmo ora lirico, ora staccato, al tempo stesso dolente e acuto, non dissimile dalla cadenza del blues con le sue dodici battute: T’hanno fregato, venduto, aggiudicato all’asta. Ora tutto fa brodo non importa come t’hanno conciato, purché ti tenga lontano da questa pena. Era la cocaina, era il whisky – chi non ne avrebbe sofferto? Era tutto da dare e niente da perdere. Erano gli uomini, era il gin, per tutta la notte. Era spassarsela e spendere tutto. Paparino, offrimi un altro bicchiere, bevi anche tu e poi fai di me quello che vuoi”. Tutto ciò lo chiamavano divertimento a Perdido Street.

Algren non sopportava le sdolcinature, si teneva lontano dai lieti fini e finì per odiare la versione hollywoodiana del suo romanzo The Man with the Golden Arm, con Frank Sinatra nel ruolo di protagonista. La sua compassione è priva di sentimentalità – più Cechov che Dickens. Era privo della propensione alle redenzioni domenicali che fanno di chiunque un cittadino rispettabile e sostenitore di Dio, patria, e famiglia.

De Beauvoir amava New York ma si sentì a disagio fra gli intellettuali della Partisan Review. Nel 1947, l’anno del suo viaggio negli Stati Uniti in treno, aereo, macchina e autobus Greyhound, i primi venti gelidi della guerra fredda si facevano sentire sia in Francia che negli USA. In un momento di forte polarizzazione, alcuni si sentirono in dovere di difendere l’URSS mentre altri scelsero gli Stati Uniti. Una terza via, perlustrata da De Beauvoir e i suoi compagni di viaggio Satre, Merleau-Ponty, Camus e altri, era difficile da trovare. Un tempo radicali, gli scrittori newyorkesi ora optarono per la “democrazia” americana, appoggiando la limitazione dei diritti a persone sospette di nutrire simpatie per il comunismo e altre misure di quella che fu la prima ondata d’una caccia alle strege, d’una estasi di conformismo e obbedienza che culminò con il maccartismo.

Gli scrittori newyorkesi snobbavano il realismo di autori americani amati dagli europei – Steinbeck, Hemingway, Dos Passos, Richard Wright – a favore di autori percepiti come psicologicamente più astuti e sofisticati: Henry James, Melville, Faulkner, Thoreau. De Beauvoir era affamata di realtà americana e di realismo americano. Il nome di Nelson Algren emerse dal nulla, pronunciato dagli intellettuali newyorkesi in conversazione con lei come esempio di uno scrittore rozzo e opaco. Fu allora che decise di andare a trovarlo non appena avesse messo piede a Chicago.

Quando il telefono squillò quel venerdì sera, Nelson stava cucinando. Non riconobbe la voce femminile dal forte accento europeo e riattaccò. Il telefono squillò altre tre volte. “Ha sbagliato numero!” gridò Nelson la seconda e la terza volta, ma alla quarta udì il centralino: “Rimanga in linea per favore”. Poi fu il turno di una voce di donna che in un inglese stentato gli disse che stava passando da Chicago e desiderava incontrarlo. Per nulla interessato, Algren stava per riattaccare quando la donna menzionò due amici in comune: Richard Wright, scrittore di Chicago espatriato a Parigi, e Mary Guggenheim. Decisero d’incontrarsi al Petit Cafe nel Palmer House Hotel. Dopo un viaggio nella El, Algren scese alla stazione di Monroe e si diresse verso l’hotel elegante. Entrato nell’atrio, notò i tappeti spessi sul pavimento e un elaborato mosaico d’oro, alabastro e piastrelle verdi sul soffitto. Si guardò intorno, trovò l’ingresso del Petit Café e vide una donna magra con un vestito bianco e una sciarpa verde intorno al collo, i capelli neri annodati e una copia della Partisan Review. Nelson esitò; rimase in un angolo a guardarla per un momento, cercando di formarsi un’impressione. Infine si fece avanti e si presentò. Il nome De Beauvoir non gli era familiare. La conversazione era stentata; il suo francese era pieno di parole dialettali imparate nel suo periodo nell’esercito. Per di più, il suo forte accento Chicagoen le era incomprensibile. Nelson si mise a parlare della guerra, poi suggerì d’andare in un tipo di locale dove, le disse guardandola negli occhi, sono sicuro che non sei mai stata. No, non uno di quei pallosi locali jazz o burlesque. Simone accettò entusiasta, stufa com’era della lucentezza mercantile dell’America a cinque stelle. Si trovarono presto in un piccolo club che passata la mezzanotte si affollò di ogni sorta di persone, molte delle quali così sporche che Beauvoir si chiese se pure le ossa si fossero ingrigite. Nelson le presentò la donna che lavorava al bar e presto vien fuori che era informatissima sulla letteratura francese e domanda a una sbalordita De Beauvoir di Sartre e Malraux. Gestisce il bar e un rifugio per i senzatetto, le spiegò Algren in seguito, e trascorre il tempo libero a leggere e sballarsi, alternando l’ospedale alla prigione. Le prime ore del mattino li trovarono a fare l’amore – dapprima per conforto, scrisse poi Simone, per lenire la tristezza dalla povertà di cui era venuta a conoscenza – e poi per passione. Durante il dialogo sussurrato del dopoamore, Nelson le raccontò di una conversazione pubblica imminente con lo scrittore Louis Bromfield sull’esistenzialismo cui avrebbe partecipato, e di come gli americani pensavano a tale movimento culturale come pessimista e nichilista. Simone ribatté: “Digli che conosci Simone de Beauvoir di persona, e che a letto non ti sembra né disperata né nichilista”. Continuarono a conversare, e lei gli disse del suo interesse appassionato per la situazione delle donne nel mondo e di un breve saggio che aveva scritto a merito. Nelson suggerì di ampliare il saggio e di esplorare le idee a fondo in un libro. Da qui nacque Il Secondo Sesso, un testo fondamentale della seconda onda del femminismo internazionale.

La vita di Algren fu rovinata dai cupi avatar del conformismo, primo fra tutti J. Edgar Hoover, famigerato direttore dell’FBI e da Norman Podhorez, quest’ultimo indignato dal fatto che, “Per Algren barboni e vagabondi sono gente migliore dei politici e i preti”. Lo stesso Podhorez acclamò in tempi recenti il “patriottismo” di Donald Trump. Algren fu colpevole di non credere al sogno americano e della decisione di sezionare tale gigantesca e pericolosa illusione con rabbia e arguzia, con l’amore e la disperazione che anima i dannati della terra. Riflettere sulle vicende della sua vita incute timore specie per chi come lui oggi s’ostina a voler vivere da scrittore. La sua vita testimonia del fatto che la compassione, il talento, e il rifiuto di sottomettersi a ideologie e interessi dominanti possono demolire una persona allo stesso modo di come lo fanno la mediocrità e l’obbedienza. L’FBI compilò un lungo dossier su Nelson Algren: la sua fedeltà al Partito Comunista Americano, i suoi contributi a riviste di sinistra – tutto debitamente, ostinatemente documentato. Gli editori lo abbandonarono; gli fu negata la possibilità di viaggiare al di fuori degli Stati Uniti. Si potrebbe pensare che in sorprendente contrappunto al destino di Algren, quella di De Beauvoir è una storia di successo. Ma è davvero così? Certo, il suo nome viene menzionato, passaggi dai suoi scritti citati (spesso malamante). A cosa ammonta la gloria di una intellettuale famosa? Il nome adorna dispense universitarie, viene riciclato da studenti ansiosi di passare l’esame in un ambiente accademico decimato dal neoliberalismo. Il suo argomento acuto ne L’Etica dell’Ambiguità a favore dell’emancipazione e della responsabilità, il suo appello accorato ad abbandonare la nostra condizione di bambini che delegano il potere personale, la propria libertà e responsabilità a figure autocratiche e populiste sono tanto più toccanti in un frangente storico in cui vengono eletti ovunque capi di governo che sono essi stessi la personificazione dell’immaturità, del privilegio e della presunzione. Il suo appello è fallito e continua a fallire perchè la stupidità e perennamente infatuata dagli orpelli del potere. Tocca a noi adesso mettere in atto i nostri splendidi fallimenti. Il fallimento creativo ha un valore inestimabile se mantiene in vita il sogno di una società migliore.

Nel dominio delle relazioni intime, il fallimento creativo insegna che sia pure non santificato o avallato dal matrimonio o dalla convivenza, l’amore ha modi infiniti di danzare e finisce per lasciare un segno indelebile nell’anima anche se i suoi voli liricizzanti e estasiati sono scritti sull’acqua. Ci insegna che l’amore è qualcosa in più della formula dettata da una normativa che decide per noi cosa costituisce la realtà. In una sua lettea del 2 giugno 1947, Simone scrive: Piango perché non piango fra le tue braccia. Quando fu sepolta, aveva ancora al dito l’anello d’argento regalatole da Nelson.

Manu Bazzano

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