Geek Love: Nella vendetta vertiginosa di Arty Binewsky il preludio delle creature di Tim Burton

Esistono personaggi ai quali guardiamo con affetto spontaneo, al punto che l’immediata naturalezza con cui ci affezioniamo a loro ci coglie di sorpresa. Per quel che riguarda i miei colpi di fulmine più inaspettati, penso alle creature malinconiche che popolano il cinema di Tim Burton o a quelle sofferenti e senza pace che escono dalle pagine di Anne Rice e mi domando quali motivazioni spingono molti di noi a provare una malcelata complicità con figure che la comune vulgata ha da sempre bollato come mostri. Occorre forse risalire alla nostra giovinezza per chiarire quella che a tutta prima pare una bizzarra propensione. Da ragazzino sono stato vittima di bullismo. Ho trascorso gli anni tra la scuola media e il diploma di scuola superiore a schivare pugni e insulti. Poiché ero molto orgoglioso già allora, non ho mai chiesto aiuto a nessuno e ho risposto ai pugni e agli insulti con il maggior numero di pugni possibili. Forse si è trattato di un modo sbagliato di reagire ma erano altri tempi – più di trenta anni fa – e il contesto in cui mi trovavo – un piccolo paese di montagna – non forniva altri strumenti che quelli da me adottati per mero istinto di sopravvivenza. E se la situazione è durata così a lungo, ciò dipende dal non essermi mai spezzato, imparando ben presto sulla mia pelle che non c’è niente di peggio agli occhi del carnefice di una vittima che mai si sente tale. Terminate le scuole, ho lasciato il paese e mi sono trasferito in una grande città per proseguire gli studi. Tutto perdonato, nulla di dimenticato. Cominciava la mia vera vita, ero libero. Se con gli anni è cresciuta la sensibilizzazione nei confronti di fenomeni aberranti come il bullismo, è altrettanto significativo notare che esiste tuttora una mentalità coriacea che ritiene il bullismo una fase di passaggio obbligata per approdare all’età adulta, capace di temprare il carattere per affrontare le avversità che si susseguiranno nella vita. Verso questa persistente mentalità non indirizzerò una sola sillaba, avendone già sprecate fin troppe negli anni passati. Nella mia ingenuità continuo a ritenere l’istruzione e la cultura ben più saldi strumenti per porsi di fronte ai problemi dell’esistenza. Mi limito a constatare gli effetti che ho potuto osservare in chi è stato suo malgrado sottoposto a quelli che molti ritengono indispensabili riti di transizione e fortificazione. Tralasciando coloro che hanno sanato le proprie ferite grazie all’efficacia dell’educazione, ho spesso intravisto in età adulta due possibili riuscite a seguito del cosiddetto trattamento rinvigorente offerto dal bullismo. C’è chi una volta adulto ha adottato un atteggiamento da carnefice, restituendo con estrema disinvoltura ad altri innocenti quei pugni e quegli insulti ricevuti nella prima giovinezza. Queste persone, per le quali non posso che sentire una profonda compassione, hanno finito con il diventare mostri alla luce del sole. C’è chi invece ha sviluppato un’altra forma di mostruosità, nascosta agli occhi degli altri. Impegnati a difendersi, questi hanno rinchiuso la loro sensibilità in una scatolina che hanno poi ben celato in un posto inaccessibile dentro di loro. A lotta finita, si sono resi conto di non ricordare dove avevano riposto quel prezioso piccolo scrigno e si sono ritrovati privi del sentimento. Incapaci così di provare alcunché, hanno assunto le emozioni e talvolta le scelte altrui, interpretandole come proprie. Ma di una recita per l’appunto si trattava e questi poveretti hanno continuato a vagare in mezzo a noi, adottando altrui pensieri e comportamenti, restando però gusci vuoti. Innocui il più delle volte, ma vuoti. Per via dell’esperienza che ho appena raccontato e per le riflessioni che negli anni successivi ne sono derivate, mi è sembrato chiarirsi perché fossi costantemente attratto nei libri che leggevo o nei film che vedevo da quei personaggi che più o meno tutti attorno a me erano abituati a chiamare cattivi, nel migliore dei casi. O forse questa mia inclinazione non dipende da ciò che mi è accaduto. Sta di fatto che non posso esimermi dal dichiarare un amore forsennato per Arturo “Arty” Binewski, il più afflitto tra i freaks creati dalla penna di Katherine Dunn nel suo sublime romanzo capolavoro Geek Love.

La vita di Katherine Dunn sembra essere lo specchio delle aspirazioni e dei rivolgimenti di un periodo preciso della nostra storia recente, soprattutto per quel che riguarda la sua trasognata esplorazione delle molteplici sfumature dell’essere liberi. Nata in Kansas nel 1945, la Dunn assimilò in fretta lo spirito libertario della madre artista e la predisposizione alla curiosità e al nomadismo di una famiglia in perenne viaggio attraverso un paese in preda a radicali cambiamenti. Dopo aver studiato filosofia e psicologia, conseguì la laurea presso il Reed College di Portland e appena cominciato il suo primo romanzo, conobbe l’uomo con il quale avrebbe trascorso i successivi dieci anni della sua vita. Lasciati gli Stati Uniti, esplorato il Messico, i due giunsero alla fine in Europa. Qui Katherine terminò un secondo romanzo, passato inosservato come il primo, e diede alla luce il suo unico amatissimo figlio. La nascita del bambino coincise con il ritorno a Portland, destinata a diventare la base stabile per la Dunn fino alla fine dei suoi giorni.

Rimasta sola, impiegandosi in mille lavori precari per poter crescere suo figlio nel miglior modo possibile, Katherine si appassionò al pugilato cominciando a scriverne dapprima per testate locali, fino a pervenire poi al New York Times. In breve tempo i suoi pezzi su uno sport considerato maschile per antonomasia diventarono leggendari, dando vita anche a un libro di culto e rilanciando i suoi primi due romanzi, che finalmente potevano essere letti per quel che erano: l’opera originalissima e in anticipo sui tempi di una artista fuori da ogni schema.

La consacrazione definitiva arrivò nel 1989 con Geek Love, libro entrato tra i finalisti del National Book Award che assunse una mitica aura per via del suo essere altro rispetto a tutto quel che andava per la maggiore allora. Dopo aver ottenuto una cattedra in scrittura creativa nello stesso college in cui anni prima si era laureata e aver ritrovato l’amore della sua giovinezza, Katherine Dunn morì a Portland nel 2016.

La lunga gestazione di Geek Love cominciò per Katherine Dunn sul finire degli anni ’70. Al principio il libro non trovò subito un editore disposto a pubblicarlo, si trattava infatti di pagine bizzarre e a tratti macabre che potevano disturbare dei potenziali lettori, compresi quelli avvezzi alla letteratura horror più splatter. Al fine di saggiare il terreno si decise quindi per una anticipazione su rivista e fu così che tra il 1983 e il 1988 ampie parti del romanzo apparvero tra la meraviglia di molti e lo sconcerto di alcuni. Quando finalmente la storia arrivò nelle librerie, vi fu uno scontro acceso tra ammiratori senza condizioni e detrattori disgustati. La candidatura a uno dei massimi premi letterari americani e il conseguente inaspettato e clamoroso successo di pubblico misero a tacere i pochi ostili che avevano condannato senza appello il libro e la sua autrice.

D’altronde erano gli anni ’80 e il romanzo della Dunn apparteneva in tutta evidenza a un altro decennio, meno inquadrato e meno conformista, più aperto alle possibilità e più disponibile a porsi delle domande. E tra quelli che su due piedi amarono il libro e ne fecero pubblica dichiarazione di entusiasmo vi fu un giovane Tim Burton, le cui creature solitarie e notturne erano strettamente imparentate con quelle della Dunn e come quelle non appartenevano al decennio di vuoto addobbato con lustrini che fu l’epoca di Reagan e della Thatcher.

Geek Love è un romanzo familiare. Protagonisti di una vicenda che si snoda su due livelli temporali differenti benché intrecciati fra loro sono i coniugi Binewski e i loro cinque figli. Aloysius “Al” Binewski e sua moglie “Crystal” Lil gestiscono uno spettacolo itinerante di bizzarrie varie che dopo anni di grande fortuna comincia lentamente a fallire. Abbandonati dai loro artisti, incapaci di trovare dei sostituti all’altezza, i Binewski scelgono di sottoporre i loro figli a delle alterazioni genetiche mediante scarti di materiale radioattivo, al fine di trasformarli in attrazioni da esibire per la riconquista del successo ormai perduto. Il procedimento a cui i due espongono i figli stravolge non solo le loro sembianze ma la loro stessa natura e se lo spettacolo otterrà nuovi favori dal pubblico, i ragazzi osserveranno le loro esistenze andare in pezzi. Arturo “Arty” Binewski vedrà le sue mani e i suoi piedi trasformarsi in pinne, Elettra “Elly” e Iphigenia “Iphy” si uniranno diventando siamesi, Olympia “Oly” smetterà di crescere e si tramuterà in una albina con la gobba e l’ultimo dei Binewski, Fortunato “Chick”, sarà il solo dei ragazzi a mantenere un aspetto comune, sviluppando però delle potenti capacità telecinetiche. Raccontato dal punto di vista di “Oly” Binewski che si rivolge alla figlia Miranda, il romanzo è la storia di un atroce esperimento che deforma cinque vite inermi modificando le loro sensibilità a ogni esposizione davanti a degli spettatori. E mentre Olympia attraverso la storia di come i Binewski sono diventati agli occhi degli altri dei mostri tenterà di salvare la figlia dalle insidie di un mondo incapace di vedere la bellezza anche laddove non sembra esservi, gli altri Binewski si dichiareranno una guerra senza esclusioni di colpi per primeggiare nelle esibizioni sempre più macabre messe in scena dai genitori.

Proprio grazie a queste pagine ormai parecchi anni fa ho vissuto uno dei più intensi colpi di fulmine letterari della mia vita di lettore. Quando la competizione tra i Binewski per ottenere maggiore visibilità sul palcoscenico sfiorerà il suo apice, a emergere saranno due punti di vista nettamente differenti: quello di Olympia, in grado di concepire il proprio aspetto come ricchezza per trasferire alla figlia nata  con una piccola coda una immagine non maldisposta dell’universo che li circonda e quello di Arturo, che ormai assuefatto a subire il rifiuto degli altri, userà il proprio infinito dolore ormai diventato odio feroce per fondare una religione – l’Arturismo -, il cui unico obiettivo sarà dotare l’umanità intera di pinne al posto di mani e piedi, plasmandola a sua immagine e somiglianza. E per quanto io creda con fermezza nella posizione espressa da Olympia, non ho avuto le forze per resistere alla sorda sofferenza di Arturo, perché come lui anch’io in certe silenziose veglie notturne dell’adolescenza ho macinato nella mia mente vendette crudeli in cui non c’era più spazio per un briciolo di pietà. Al contrario di Arturo, mi reputo fortunato. Sono scampato alla vertigine della vendetta e non ho restituito quell’odio inconsulto con altrettanta forza e intensità. Arturo, lo straordinario personaggio di Katherine Dunn non ce l’ha fatta e l’oscurità lo ha inghiottito. Forse per salvarlo occorreva intervenire l’istante prima che si sedimentasse in lui questa convinzione:

A true freak cannot be made. A true freak must be born.

Alex Marcolla

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