La discesa agli inferi di Alan Hollinghurst

Uno dei più ostinati ritornelli degli ultimi anni è quello che vorrebbe venderci la salvezza per mezzo dell’assunzione di massicce dosi di bellezza. Credo sia tipico delle epoche caratterizzate da profondi rivolgimenti e persistente instabilità rivolgersi a concetti usurati per infondere sicurezze laddove queste latitano. Sulla buonafede di questo atteggiamento volto a tener salda la fiducia si possono nutrire dubbi. Non sappiamo mai quali siano gli scopi effettivi di chi si erge a paladino dell’ottimismo generalizzato. Al contrario, sui contenuti di questo processo non si può che restare perplessi, intravedendo quasi sempre sfumature e interpretazioni tanto stantie da sorprendere i più accorti di noi che ritenevano siffatte argomentazioni sepolte nella notte dei tempi. E così come gli spacciatori del concetto di natura la ritengono in genere benigna e generatrice di vita e soprattutto la appiccicano all’essere umano fingendo in malafede di dimenticare che esistono altri aspetti della natura e che noi umani siamo in primo luogo cultura, così gli stessi spacciatori ci propinano una versione edulcorata della bellezza tutta luce e appagamento, quasi si trattasse di una miscela non del tutto letale tra un eccitante e un oppiaceo. Nessuno sembra voler ammettere né tantomeno sostenere che la bellezza può far perdere il senno a coloro i quali se ne abbeverano fin troppo o che non è matematico che porti la luce dato che esiste una bellezza delle tenebre che può sedurre in maniera altrettanto intensa. Oppure ancora, non siamo disposti ad accettare che la bellezza può far smarrire la strada a chi la insegue o perdere essa stessa la strada trascinando con sé chiunque. Soprattutto non passa per le nostre sempre più ristrette anticamere mentali che ciò che chiamiamo bellezza non è obbligatoriamente un sinonimo di beatitudine salvifica. Una visione problematica della bellezza, lontanissima dalle nostre idealizzazioni edulcorate, ci è stata fornita per secoli dalle più autentiche opere dell’ingegno artistico umano, tanto grandi proprio perché capaci di mostrare tutti gli aspetti dell’essenza della bellezza, inclusi quelli più nascosti, ribaltando i più consolidati luoghi comuni e le abitudini mentali più dure a morire sull’argomento. E tra le più recenti di queste opere ve ne è una che partendo dalle pagine problematiche di Mann, Nabokov e Henry James ha dato vita a uno dei più inquieti ritratti della bellezza in cui mi sia imbattuto nella mia vita di lettore. Mi riferisco al superbo The Folding Star, capolavoro nascosto dello scrittore inglese Alan Hollinghurst.

Poche le notizie che riguardano la biografia di Hollinghurst e perlopiù espressione di una vita interamente dedicata alla scrittura. Nato nel Gloucestershire nel 1954, unico figlio di James Hollinghurst, un direttore di banca che si era fatto valere come pilota della RAF durante il secondo conflitto mondiale, e di sua moglie Elizabeth, Hollinghurst ha frequentato il prestigioso Magdalen College di Oxford, terminando gli studi con lode nel 1979. Cominciò quasi subito la sua carriera di docente universitario presso l’università nella quale si era laureato accanto a quella di conferenziere presso lo University College of London, ruoli che gli conferirono grande prestigio e gli consentirono di approdare a metà degli anni ’80 al Times Literary Supplement in qualità di vice direttore. L’esordio come romanziere avvenne nel 1988 con il celeberrimo The Swimming-Pool Library, romanzo assurto in brevissimo tempo allo status di classico contemporaneo. Romanziere, poeta, autore di racconti e traduzioni, Alan Hollinghurst ha fatto della scrittura nel corso degli anni  un autentico culto, impegnandosi quotidianamente a esprimere un ideale di bellezza capace di rendere trasparente la sostanza profonda dello spirito umano, sulla scia degli autori amati fin da ragazzo come Henry James e ai quali aveva dedicato la propria originalissima tesi di laurea come Firbank, Forster e Hartley. Così facendo, lontano dalle luci della ribalta, ha pubblicato in poco più di tre decenni una manciata di straordinari romanzi, uno dei quali – The Line of Beauty, amarissimo racconto – meditazione sull’infausto periodo thatcheriano – gli ha permesso di vincere un Booker Prize nel 2004. Vive attualmente a Londra, il suo ultimo libro risale a cinque anni fa.

In una delle rare interviste concesse ha asserito di non riuscire più a far convivere scrittura e vita sociale quotidiana come quando era giovane, avvertendo oggi la necessità di isolarsi per lunghi periodi ogni volta che si profila all’orizzonte l’idea per un nuovo romanzo. Forse anche per questo conduce una esistenza rigorosamente riservata.

Pubblicato nel 1994, The Folding Star è il secondo romanzo di Alan Hollinghurst. Al centro della vicenda raccontata troviamo Edward Manners, giovane uomo inglese deluso dalla propria vita e dalla madrepatria. Deciso a ricominciare daccapo e altrove, Manners si trasferisce in una cittadina delle Fiandre dove per mantenersi insegna inglese a due ragazzi molto diversi tra loro. Uno, Marcel, è un sempliciotto poco portato per gli studi. L’altro, Luc, oltre a essere provvisto di una finissima intelligenza, incarna agli occhi di Edward quell’ideale di bellezza salvifica che da sempre risulta essere il cruccio principale di Manners. Diviso tra l’insegnamento e occasionali relazioni con stranieri di passaggio, Edward si imbatte nelle opere del pittore simbolista Edgard Orst, mirabile creazione di Hollinhurst modellata su reali pittori come Ensor e Khnopff. La vista delle opere di Orst turba nel profondo Edward, che nell’ossessione per la bellezza del pittore riconosce la propria ricerca della salvezza, risolta per entrambi nella tragica constatazione di essere del tutto incapaci di amare il prossimo. Non riuscendo a venire a patti con la propria attrazione per Luc, Edward rivivrà la medesima caduta di Edgard Orst, che oggetto di una vera e propria dipendenza emotiva nei confronti della sua modella, la bellissima Jane Byron, finirà con il soccombere alla follia dopo la scomparsa misteriosa della giovane. Avvistata per l’ultima volta mentre nuotava in mare aperto a Ostenda, Jane Byron svanisce tra i flutti condannando Orst a dipingerla nel dettaglio fino alla fine dei suoi giorni. E quando Luc sparisce nel nulla e di lui dopo mesi di ricerche resterà solo una delle tante fotografie sbiadite di persone scomparse affissa sulla bacheca che si affaccia sulla medesima spiaggia di Ostenda davanti al mare che ha forse inghiottito Jane Byron, per Edward si aprirà un baratro incolmabile che lo risucchierà per sempre nelle tenebre.

Come Gustav Von Aschenbach avvinto dalla idealizzata bellezza di Tadzio perisce per averla sentita come la sola via di salvezza e Humbert Humbert nella sua aspirazione al rinnovamento morale perde se stesso inseguendo Lolita, sublime incarnazione della volgare bellezza del giovane continente americano, così Edward Manners e Edgard Orst convinti del potere salvifico della bellezza smarriscono irrimediabilmente se stessi, non potendo concepire che lo stesso oggetto della loro ossessione possa abbandonare questo mondo poiché non sottoposto ad alcuna legge di proprietà. Da un lato ritroviamo un intellettuale e un artista in perenne conflitto con i propri limiti, ciechi a tal punto da non vedere le persone che hanno attorno e quindi impossibilitati ad amarle davvero. Dall’altro Manners e Orst trasformano Luc e Jane Byron in autentiche divinità e dediti a un culto religioso forsennato non si rendono conto che la bellezza come qualunque altra qualità umana, una volta equiparata a Dio rivela come quest’ultimo la propria natura fugace. E scomparsa dall’orizzonte dei suoi adepti più fragili, li condanna a piombare in quel genere di pazzia che è mancanza di adesione al carattere effimero dell’esistenza umana, con l’impossibilità di accedere a una qualunque forma di salvezza che non sia sorretta da un uso accorto della ragione. Hollinghurst ci accompagna in questa discesa agli inferi adottando i ritmi lenti, precisi e sinuosi di una prosa di chiara derivazione jamesiana, intrappolando il lettore tra infatuazioni ossessive e laceranti bisogni di luce e tramite la sua sottile ironia ci pone di fronte al nostro paradossale e non riconosciuto bisogno di perderci invocando parole altisonanti come bellezza, divinità e salvezza. Così facendo, ci ricorda a ogni riga che a ben vedere solo i peggiori tra noi insistono nel trovare a ogni costo la bellezza l’uno nell’altro.

Alex Marcolla

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