Non credo in Dio, non sono ateo. Nutro per fondamentalisti e atei una autentica allergia, li considero privi di immaginazione. Ho fede nel Mistero, quel sentimento sfuggente e quotidiano che mi spinge a gioire per la bellezza della vita altrui e a percorrere la mia alla ricerca cocciuta di domande, evitando con accortezza le risposte. Non è stato sempre così. È esistito un tempo nel quale sentivo la presenza di Dio dentro, accanto e attorno a me. Erano gli anni della prima adolescenza e il Dio a cui mi riferisco era quello della tradizione culturale nella quale sono nato e cresciuto, nella quale vivo tuttora. Erano gli anni in cui frequentare una messa coincideva anche con l’emozione di assistere a un affascinante spettacolo teatrale che aveva origini lontanissime e complesse. Ancora, erano gli anni in cui le storie della Bibbia si confondevano nella mia immaginazione con le grandi narrazioni letterarie e cinematografiche che già frequentavo con cieca passione. Vivevo in una sorta di Paradiso terrestre in cui nulla mi sembrava sbagliato, tantomeno ciò che già sapevo di essere. Ero un povero, piccolo ingenuo. Arrivò la mela, me la fecero ingoiare a forza. Arrivò sotto forma di una parola destinata a ripetersi senza tregua e tutto cambiò nell’arco di un attimo. Prima Dio c’era e il “mio” mondo sembrava perfetto. Poi tutto svanì, incluso Dio. La mela era la parola frocio. E a quattordici anni mi ritrovai abbandonato sulla soglia della casa del Padre. Mi fortificai in fretta, presi un’altra direzione. Seguii la libertà come me l’aveva insegnata mio padre, impiegai la curiosità che lui mi aveva trasmesso e mi impegnai a sostare accanto agli interrogativi che mi si ponevano un passo dopo l’altro. Non mi sono più voltato indietro. E negli anni di poco successivi a quella fuoriuscita dal mio sciocco Paradiso terrestre ho compreso che non siamo abbandonati da Dio, bensì ne siamo allontanati dalle leggi di coloro che l’hanno inventato per fini di potere e sopraffazione. Quelle leggi si chiamano religioni, la loro arma si chiama Dio. Nel caotico mistero di una intera esistenza può anche capitare al contempo di essere dichiarati indesiderabili agli occhi di Dio e di sentirsi abbandonati più e più volte dal Padre senza che sia stata emessa alcuna apparente sentenza di condanna. Ma sempre ci chiediamo quando ciò sia accaduto, quando ci siamo ritrovati chiusi fuori da quella porta. Così è stato per uno dei più straordinari artisti inglesi del ‘900, la cui fulminea biografia trascorsa lontano dall’uscio della casa del Padre si è risolta in una appassionata impresa condotta grazie al suo magistrale talento di pittore e scrittore. Questo straordinario personaggio si chiamava Denton Welch.
Molti furono gli abbandoni che investirono la vita di Welch, tuttavia uno soltanto lo scagliò in via definitiva fuori dal consesso umano, alimentando un universo di tenebra fatto di immagini perturbanti e dense parole cariche di minaccia. Un mattino come tanti un ragazzo di vent’anni amante della natura incontaminata attraversava in bicicletta gli spazi aperti e luminosi della campagna del Surrey. Nessun pensiero sembrava funestare il giovane. Forse la sua mente tornava alle tele da dipingere che lo attendevano a casa. O forse alle pagine fitte di appunti sul proprio freschissimo passato che avrebbero costituito di lì a poco l’ossatura del suo primo libro. O forse più semplicemente non pensava a niente di tutto ciò. Era nel fiore degli anni, si godeva soltanto una bella giornata solo con se stesso. Un auto sbucata dal nulla, un urto improvviso, una figura esile gettata per aria, un tonfo brutale. Denton Welch si risvegliò tempo dopo, una frattura della colonna vertebrale lo aveva temporaneamente immobilizzato in un letto di ospedale. I dolori fortissimi, le complicazioni manifestatesi in altre parti del suo corpo e gli interventi ripetuti per salvarlo durarono un anno, nel corso del quale fu trasferito più volte presso centri specializzati in lesioni vertebrali. Poco prima di giungere nell’ennesima clinica nel Kent una tubercolosi spinale fu sul punto di ucciderlo. Lo salvarono, la morte poteva attendere. In realtà, la morte si era sistemata accanto a lui e gli aveva sussurrato all’orecchio che avrebbe aspettato paziente ancora un poco perché desiderava che Denton potesse esprimere quel che soprattutto dopo l’incidente gli passava per la testa. E Denton aveva capito che il tempo concessogli sarebbe stato davvero molto poco. Era stato definitivamente cacciato dalla casa del Padre.
Denton Welch nacque a Shangai nel 1915, quarto e ultimo figlio di un ricco mercante inglese della gomma e di una americana del New England dall’ossessiva fede protestante. Il primo abbandono subito da Welch fu quello della madre. Colpita da una rara infezione renale, la donna morì che Denton non aveva ancora compiuto undici anni. Visto dal padre come un intralcio per i suoi continui viaggi d’affari, il bambino fu spedito in un rigido collegio inglese. Lontano dal resto della famiglia, in completa solitudine portò a termine gli studi e ottenuto il diploma già gli era chiara la strada che intendeva percorrere: sarebbe diventato un pittore. Quando giunse a Londra per studiare arte presso il prestigioso Goldsmiths’ College aveva già preso consapevolezza della propria identità sessuale, elaborando così un ulteriore rifiuto da parte del Padre.
E malgrado le leggi allora vigenti in Inghilterra che condannavano alla galera chi era omosessuale, Denton visse la sua vita senza mai nascondersi e forse a infondergli ulteriore forza per affermarlo alla luce del sole fu proprio l’incidente. Forse si chiese cosa mai potessero fargli. Mettere in galera chi già era condannato a morte?
L’incidente interruppe i suoi studi, non i suoi progetti. Al contrario, questi si arricchirono. Accanto alla pittura cominciò a fare capolino la scrittura, le immagini dipinte nella sua mente si sovrapponevano a quelle create tramite le parole. Nell’estate del 1936 Denton poté finalmente lasciare l’ultimo ospedale nel quale era ricoverato. La degenza gli aveva riservato due doni del tutto inaspettati. Ritrovò Evelyn Sinclair, amica dell’infanzia che si prese cura di lui e non lo avrebbe più lasciato. Si legò del tutto a Eric Oliver, che divenne il compagno amatissimo per i pochi anni che avrebbe vissuto e al contempo musa ispiratrice per molti dei suoi racconti più originali. Assieme a Evelyn e Eric, Denton creò quella famiglia che mai aveva avuto. I tre accettarono l’offerta di una coppia di anziani pittori amici di Welch che diedero loro una residenza accogliente in cui vivere, non distante dai medici che con regolarità sottoponevano Denton a visite di controllo monitorando le sue condizioni. Fu per Welch un ricchissimo momento creativo. Nonostante i dolori non lo abbandonassero un solo istante, le tele di questo periodo furono numerose e altrettante furono le mostre a lui riservate. Grazie a un saggio dedicato al suo lavoro apparso su Horizon, la rivista letteraria di Cyril Connolly e Stephen Spender, il nome di Denton Welch cominciò a essere sempre più familiare e ciò gli permise anche di pubblicare le poesie e i racconti che andava scrivendo con foga. Maiden Voyage del 1943 fu il primo libro pubblicato da Welch, seguito solo un anno dopo da In Youth is Pleasure, accolti entrambi con sorpresa tra cori entusiasti e disgustati sospetti. Erano questi primi due lavori di Denton romanzi autobiografici dallo stile labirintico di matrice proustiana, volti a esplorare le sue esclusioni da un Giardino dell’Eden in cui non aveva mai creduto, il primo dedicato alle sue continue peregrinazioni giovanili in Oriente al seguito di quei due perfetti estranei che erano i genitori, il secondo riservato alla naturalissima presa di coscienza della sua sessualità e alle conseguenze che il viverla senza timore alcuno avrebbe comportato. Mancava un ultimo tassello, il romanzo che avrebbe toccato la sua esclusione definitiva dal mondo dei vivi, quello in cui avrebbe fatto il resoconto spietato dell’incidente che lo aveva condannato a una lenta morte prematura. A Voice Through a Cloud, il pezzo mancante, uscì nel 1950. Denton Welch non ebbe modo di vederlo pubblicato. Morì a fine dicembre del 1948. Aveva trentatré anni. Al suo capezzale in quella fredda mattina invernale c’erano Evelyn e Eric, la sua famiglia.
A distanza di molti anni dalla sua morte, Denton Welch rimane soprattutto un artista per pochi, riconosciuto come imprescindibile fonte di ispirazione da molti scrittori che ne testimoniarono l’immenso talento. Da William Burroughs che trasformò Welch in un personaggio emblematico nel suo romanzo del 1983 The Place of Dead Roads, a John Waters che trasferì nei suoi film più riusciti il nerissimo immaginario delle opere pittoriche e letterarie di Denton, passando attraverso le innumerevoli attestazioni di profonda stima da parte di Barbara Pym, Beryl Bainbridge, Alan Bennett e Alan Hollinghurst, pochi sono stati gli artisti del secondo dopoguerra a restare indifferenti di fronte alle opere di Denton Welch. Se corrisponde al vero che la sua vocazione di pittore fu assai precoce, altrettanto lo è il fatto che l’incidente destinato a ucciderlo con lentezza costituì un radicale spartiacque nella sua vita artistica oltre che personale. Lettore eccezionale, Welch non aveva mai pensato a sé come a un possibile scrittore, riservando alle immagini pittoriche quelle suggestioni che la pagina scritta assimilata con passione gli portava costantemente. Tuttavia l’incidente rese il dipingere sempre più faticoso e la scrittura una pratica che comportava un dolore fisico minore. E quando le tele cominciarono a virare verso mondi sempre più simili a miniature gotiche opprimenti, i toni color pece si trasferirono anche sulla carta dando vita a numerosi racconti in cui la realtà veniva distorta e ridicolizzata originando favole oscure tinte di umorismo macabro. Eppure, grazie a uno stile preciso e attento ai piccoli dettagli quotidiani all’apparenza insignificanti, quelle storie erano toccate dalla pura grazia e narrate attraverso l’occhio originalissimo di un profondo conoscitore della natura umana. Trasferite queste caratteristiche dai racconti brevi alle tre opere maggiori, Welch è riuscito alla perfezione nel tentativo immane di restituire l’autoritratto incandescente di un giovane uomo respinto in eterno dalla dimora paterna, che mai però si è percepito come una vittima, accettando con estremo coraggio di andare alla cieca in un territorio sconosciuto, con a fianco la morte come sola compagna di viaggio, ben sapendo che…
This is what everyone feels from birth to death.
Alex Marcolla
(immagne: un autoritratto di Denton Welch)
Una Frida Kahlo al maschile… bella scoperta. Grazie
Grazie a Francesco😊 in effetti non ci avevo fatto caso, ma ci sono affinità tra Welch e la Kahlo, soprattutto per quel che riguarda gli autoritratti a cui si sono dedicati entrambi. Grazie ancora!😁😊