I turbamenti della giovane Beryl Bainbridge, sfiorata da derive atroci

Chissà cosa avrebbe detto Beryl se avesse saputo di quella canzone. Ne avrebbe sorriso compiaciuta, sicuro. Quando però Mark Knopfler gliela dedicò nel 2015, Beryl non c’era già più da cinque anni. Una vita laboriosa, la sua. Emozionata e laboriosa. Negli ultimi anni Beryl era tornata a occuparsi di teatro. Di romanzi ne aveva scritti molti, così come numerosi erano stati i premi vinti. E più il tempo trascorreva, maggiori erano gli sguardi venati di tenerezza che riservava ai suoi libri. Sguardi di una madre ormai matura che osservava la ragazzina che era stata comparire tra le pagine concepite soprattutto agli inizi. A volte i ricordi sostavano con insistenza a quell’estate del 1947, in cui si innamorò per la prima volta. Lei appena quindicenne, lui rilasciato da un campo di prigionia in attesa di rimpatrio. Lei sventata e controcorrente, come sempre sarebbe stata negli anni a venire. Lui un ragazzetto tedesco mandato a combattere quando la disfatta era a un passo, poi finito in mano inglese. E ora con la nostalgia di casa mitigata dalle carezze di Beryl. Dopo la partenza di lui, per sei anni Beryl poté dar corpo a quella incontrollabile smania di scrivere che l’aveva catturata molto in fretta compilando articolate lettere cariche di quell’ardore che è consuetudine nell’adolescenza. Desiderava sposarlo, tentò di farlo. Non ci riuscì. La storia terminò. Entrambi trovarono un nuovo amore. Ma quell’estate in cui l’inizio della sua vita coincise con il bel soldato tedesco, finì tra le pagine di un romanzo. Era il 1973, fu uno dei suoi più notevoli risultati. C’era anche quell’altro libro, però. Quello in cui lei figurava poco o niente. Il primo che aveva scritto in assoluto. Quello che era stato rifiutato così a lungo da uscire quando Beryl era già un nome nell’ambiente letterario. Perché rabbrividiva ancora oggi tutte le volte che ricordava quel maledetto libro che pure amava? Aveva poco più di venti anni quando i giornali inglesi cominciarono a riportare quel dannato fatto di cronaca. Un barbaro omicidio. Un arresto inaspettato. Un processo clamoroso. E le giornate di Beryl passate nell’attesa di notizie, nuove puntate sempre più gravate di clamore. Era accaduto così lontano da lei. Eppure, l’onda dello sconcerto, le grida insensate, il moralismo inconcludente, tutto si era mosso con rapidità giungendo fino in Inghilterra. Fino a lei, Beryl. Ritornò allora al bigliettino sconcio che una amichetta le aveva fatto arrivare durante una pausa a scuola quando entrambe avevano quattordici anni. Ripensò a come si era sentita nel momento in cui lo aveva letto. Avvampava di vergogna e di desiderio. E quando glielo trovarono addosso, Beryl si rifiutò di fare la spia. Il biglietto era opera sua, soltanto sua. Venne espulsa dalla scuola. Non si pentì mai. Le protagoniste del fatto di sangue che ossessionava Beryl erano anch’esse adolescenti, qui però non si trattava di bigliettini sconci. Loro avevano ucciso e Beryl non riusciva a smettere di pensarci un solo istante. Decise che avrebbe dedicato loro il suo primo romanzo. Forse perché anche la Beryl adolescente nel mezzo di una ribellione senza direzione era stata sfiorata da derive atroci. Tuttavia, lei una strada l’aveva poi trovata e intrapresa. Meglio, l’aveva riconosciuta. C’era sempre stata, non sapeva da dove le arrivasse quell’impulso a scrivere, le apparteneva. E avrebbe impiegato quel dono per narrare di quelle due ragazze che un pomeriggio qualunque del 1954 compirono un gesto terribile.

Juliet era arrivata da poco in Nuova Zelanda. I suoi genitori erano benestanti. Il padre aveva ricevuto il prestigioso incarico di rettore dell’università di Christchurch. Anche la famiglia di Pauline viveva in quella città, ma faticava a sbarcare il lunario. Con un anno soltanto di differenza, entrambe propense a fantasticare sul proprio futuro e desiderose di fuggire dai rispettivi contesti familiari, si conobbero nel cortile della scuola che frequentavano. Divennero inseparabili da subito. Al principio questo legame non destò particolare attenzione. Certo, il contesto sociale da cui provenivano era molto diverso e nessuno comprese cosa le due avessero in comune. Cominciarono a circolare pettegolezzi. Le calunnie tuttavia erano ancora lontane. Juliet e Pauline erano semplicemente amiche e per proteggere questo rapporto esclusivo, crearono un mondo tutto loro nel quale nessun altro essere vivente poteva trovare un posto. Un universo composto di fiabe tetre e mitologie arcane, stregonerie inavvicinabili e sacrifici necessari. E grazie alla spettatrice Pauline, Juliet riconobbe in sé un talento da cantastorie di cui sospettava l’esistenza ma che in quel momento non poteva del tutto comprendere. Lo avrebbe compreso in seguito, regalandole una seconda opportunità. Il padre di Juliet ottenne una promozione, si trattava di un nuovo autorevole ruolo universitario. Erano in procinto di trasferirsi ancora. In Sudafrica, questa volta. Pauline voleva a ogni costo andare con l’amica e fece pressione sulla madre affinché le desse il permesso. Anche Juliet chiese ai genitori di poter essere accompagnata nel nuovo paese dall’amica. Ambedue ricevettero un rifiuto. E timorose di quel legame ormai fuori controllo, le famiglie chiusero ogni relazione reciproca e impedirono alle ragazze di vedersi fino a quando Juliet non fosse partita. Fu sufficiente un mattone ben chiuso in una vecchia calza. La madre di Pauline fu rinvenuta cadavere, picchiata a morte dalla figlia e da Juliet. Sporche di sangue, le due non fecero niente per discolparsi. Allo stupore iniziale seguì lo sgomento. Poi l’orrore. Troppo giovani per la pena di morte, furono condannate a cinque anni di carcere. Scontata la pena, Juliet lasciò la Nuova Zelanda con i genitori e fece ritorno in patria. Dopo qualche anno, anche Pauline fu mandata da alcuni parenti in Inghilterra. Entrambe adottarono nuove identità. Non si rividero mai più. Sono tuttora in vita. E una di loro ricomparve a sorpresa sulla scena, tra lo sconcerto di tutti. Soprattutto di Beryl.

Quando Beryl finì il romanzo ispirato a quell’efferato omicidio, Juliet e Pauline si trovavano ancora in prigione dall’altra parte del mondo. Era il 1958 e uno dopo l’altro tutti gli editori a cui Beryl aveva spedito il suo libro lo rifiutarono con nauseata cortesia. Protagoniste della storia narrata da Beryl erano due giovanissime studentesse in vacanza presso una cittadina della costa inglese. Più grande e dalla personalità magnetica, Harriet tiene in pugno la fragile narratrice senza nome del romanzo. Peter, un uomo di mezza età infelicemente sposato, desta le attenzioni della più piccola delle ragazzine, che lo ribattezza “lo Zar”. Spinta da Harriet, le due cominciano con lo spiare la vita quotidiana di Peter con l’intento di umiliarlo agli occhi dell’intera comunità, senza immaginare che il loro proposito si possa concludere nel peggior modo possibile. Quando per l’ennesima volta il manoscritto del suo libro era tornato al mittente, Beryl lo rilesse cercando di comprendere le motivazioni dei rifiuti continuati. Il caso di Juliet e Pauline non figurava nel suo libro. C’era semmai quel legame esclusivo e avulso dalla realtà tra personalità fragilissime e tentate dal male che aveva scosso profondamente Beryl nei giorni in cui i giornali inglesi erano ossessivamente occupati dall’omicidio di Christchurch. E forse in quel legame c’era anche qualcosa della sua prima giovinezza. Mise da parte il suo romanzo. Preferì dimenticare quella faccenda. Cominciò un nuovo libro, continuò la sua vita. E una volta diventata una scrittrice celebre, il suo editore che in passato era stato tra quelli che avevano rifiutato il suo primo romanzo, le propose di pubblicarlo. I tempi erano cambiati, non si era più negli anni ‘50. E nel 1972 Harriet said poté alla fine arrivare nelle librerie. Beryl non prestò molta attenzione al successo di quel libro, erano accadute molte cose importanti nella sua vita negli ultimi anni. Aveva amato, era diventata madre, aveva continuato a scrivere trovando nella pagina una libertà sconfinata. E si era scordata di Juliet e Pauline.

Poi un giorno del 1994, mentre scorreva i giornali del mattino vide una fotografia. Si trattava dell’immagine sobria di una donna con un sorriso pacato che aveva superato da un po’ la mezza età. Beryl la riconobbe, era una scrittrice molto popolare di pochi anni più giovane di lei. Anne Perry, questo il nome della donna nella fotografia, aveva raggiunto un successo planetario come autrice di raffinatissimi polizieschi ambientati in epoca vittoriana, al punto da vincere numerosi premi e di essere indicata come erede di Agatha Christie. Beryl non la conosceva di persona, forse aveva letto qualcosa di suo in passato. Non si erano mai incontrate, di questo ne era sicura. Beryl amava essere un personaggio mondano, forse le derivava da una parentesi giovanile come attrice. Poco le importava comunque sapere il perché di questo aspetto del suo carattere, le piaceva e basta. Al contrario, Anne Perry aveva fama di donna allergica alla mondanità, lontana dalle luci caotiche di Londra e profondamente religiosa. No, non si erano mai incontrate. Eppure, qualcosa non le tornava. La donna che la fissava in silenzio dalla fotografia le sembrava nel posto sbagliato. Fu un attimo. Si accorse che la pagina su cui si era fermata non era quella della rubrica letteraria. Sotto l’immagine di Anne Perry era riportata tra le notizie del giorno una lunga intervista. Beryl cominciò lentamente a leggere e improvvisi la colpirono il disagio e l’inquietudine sperimentati quaranta anni prima scorrendo le cronache dell’omicidio avvenuto in Nuova Zelanda. Juliet era lì, le puntava gli occhi addosso e lo faceva senza alcuna spavalderia o rancore. Anne Perry era in realtà Juliet. I suoi occhi erano il risultato di un lungo, difficile e tortuoso percorso di espiazione. Anne Perry era la seconda occasione di Juliet, la sua seconda vita. Quella in cui Juliet aveva usato il suo talento di affabulatrice per donare a Anne Perry la redenzione. Finita di leggere l’intervista, Beryl fissò per un attimo un punto qualsiasi fuori dalla finestra dritta davanti a sé. Poi sorrise. I turbamenti che quella storia le avevano procurato tanto da spingerla a scrivere un libro erano ora svaniti. Chiuse il giornale e si preparò a un nuovo giorno di lavoro dedito alla scrittura.

Alex Marcolla

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