Il Rimbaud di Brooklyn, o di questi geroglifici, l’unica prova di essere stato al mondo

Sarton mi racconta di come la gentrificazione è iniziata alla grande a New York dopo l’attacco alle torri gemelle. L’orrore, frenesia e solidarietà intense di quel giorno fecero di lui un newyorkese. È una domenica calda e ventilata a Wagner Park North. Da qui si gode una splendida vista del porto. Condivido una pizza con Sarton, organizzatore del congresso di psicologia, che ora si corregge. No, la gentrificazione è iniziata prima dell’11 settembre e su larga scala; forse fu una delle cose esacerbò rancori e divisioni culminati con l’attacco alle torri.

Me n’ero accorto che New York non è più quella degli anni ‘70, non più la Firenze rinascimentale per punk rockers che ancora visito nei sogni, esecrata dal resto degli Stati Uniti e abbandonata a un Hobbesiano stato di natura. La politica urbana di “riduzione pianificata” ha depurato intere zone dai poveri e i senzatetto e ripavimentato interi quartieri per la classe media e le agiate privazioni d’una vita privata. M’aveva colto di sorpresa l’improvvisa ondata di emozione provata quando il traghetto si avvicinò a Ellis Island. Era qui che cent’anni fa giungevano navi di migranti dall’Europa in cerca di una nuova vita. Echi lontane, i segni di gesso per identificare la malattia o l’analfabetismo, come era nel luogo in cui fuggivano, interrogati da uomini in uniforme, la loro sanità mentale messa alla prova e verificata. Eccola lì, la Statua della Libertà o Bigottismo, eco igienizzata di Afrodite, in bilico tra l’impossibile e l’inevitabile, un solo sguardo e ne sei schiavo. Echi di Minerva, della Ragione e dell’Illuminismo, del suo sguardo d’acciaio equanime, presbiteriano, della sua inviolabile pietrificata avvenenza. La razionalizzazione produce mostri: il lato buio dell’Illuminismo. Bisognerà correggerlo, l’ultimo verso della famosa poesia di Emma Lazarus, e ci pensò Lou Reed, poeta non-ufficiale della città:

Datemi i poveri, le masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi i senzatetto, i naufraghi di mille tempeste: li bastonerò a morte.

Il giorno dopo durante le brevi pause d’una riunione dilungata, scorci del Chrysler Building. La giornata finisce e si decide di incontrarci a cena con gl altri. Memorizzo l’indirizzo e con troppa disinvoltura m’incammino senza una mappa e presto mi rendo conto d’essermi perso. E che mi piace. Il caldo aumenta nel sole calante, ogni viale si estende all’infinito, il cielo intero un’indulgenza di luce eterea su un mondo interamente umano, le nostre ali artificiali perforano le scapole come artigli. La notte scivola fra una miriade di lampioni che sdegna il firmamento, e sarebbe un’indelicatezza vedere le miriadi come parte di un’unico disegno. L’alba mi trova in un angolo della Grand Central Station a osservare costellazioni dipinte sul soffitto e la folla che passa veloce e silenziosa. Così tanta bellezza mi riempie di gioia; il cielo finto e il passo schietto dei pendolari fin dentro il fiume del mondo, strana gioia di una macchia nella corrente, New York City I love you/Blink your eyes and I’ll be gone/ Just a little grain of sand.

Il convegno può aspettare. Sono diretto a Canal Street in Chinatown, nel mezzogiorno infuocato, il ponte di Manhattan un miraggio lontano, una destinazione, un destino in divenire nel caldo di mille estati d’infanzia nel sud calabrese. Inseguo l’apparizione e mi aggiro invano intorno ai contorni occidentali del ponte, il frastuono del traffico si intensifica con voci di soffocata disperazione agli angoli di strade romane e napoletane. Il Museo Italiano è chiuso per ferie, congelato in un giorno qualunque del 1977, una foto sbiadita di Giorgio “Long John” Chinaglia, attaccante della Lazio e poi del New York Cosmos e che illuminò il Cosmo, dice la dedica, fra la nascita a Carrara nel 1947 e l’inevitablile morte a Naples, Florida, 2012. La sua foto accanto a quella di Papa Francesco che non può sbagliare nonostante si sia rifiutato di ricevere il Dalai Lama per paura di scazzare i cinesi. Altre foto sbiadite adornano la vetrina, ristoratori ignoti con basette anni ‘70 e tagli di capelli inverosimili. Ai tavoli all’aperto del ristorante accanto, due uomini con la barbetta bianca raffilata succhiano un sigaro mentre una matrona si rimpinza di pastasciutta gesticolando managerialmente in direzione di un cameriere silenzioso. Sono giunto alla meta, il Ponte, un inferno tremolo di ferro e metallo sul cemento elastico finché stordito e disidratato dall’ambizione peregrina barcollo mentre il ponte mi trema sotto. Questa città è troppo vasta, troppo bella. La sua anima logora luciferina ora intenerita al calar della lunga sera d’estate mentre stordito e assetato osservo i grattacieli come mio nonno Santo e come ogni contadino o manovale d’altri tempi ogni terrone come me che approda qui per sbaglio e a questo punto mi viene in mente Delmore Schwartz che tutti chiamavano Delmore, nato a Brooklyn da migranti ebrei rumeni. Delmore, il Rimbaud di Brooklyn, protagonista de Il dono di Humboldt di Saul Bellow. Delmore autore a ventunanni del libro di racconti In Dreams Begin Responsibility con il titolo che ammicca a W.B. Yeats e descrive il divario generazionale fra i genitori dei migranti e la loro progenie metà assimilata e metà modernista. E chi meglio di Delmore può scrivere della furia di voler afferrare la vita per il bavero e declamare poesia fino a essere ascoltato? Delmore, New York boy! Siamo shakespeariani, siamo stranieri. Chi meglio di Delmore a raccontare dall’inizio nascita, migrazione, nuove delusioni, sogni deragliati, vite ordinarie trasformate in statue dalla storia. Delmore che voleva drappeggiare il mondo di splendore e non avendo stoffa sufficiente morì invece a 52 anni nel 1966 in una stanza d’albergo a un angolo di Times Square. Keep thinking all the time o New York boy! La vita d’un esiliato è vissuta in contrappunto, forgiata nella precarietà e nell’euforia, esilarante perché precaria.

“Mi sembri un minatore”, mi dice il poliziotto americano al confine. Lo accetto come un complimento. È d’umore loquace, il difensore dell’ordine costituioto, e se la prende con calma nonostante la fila enorme dietro di me. “Io sono più a sinistra di Bernie Sanders” insiste. Continua a interrogarmi in tono formale, affettuoso persino, d’un affetto sinistro. Venuto a sapere che sono uno psicologo, tira fuori dalla borsa un libro di un certo Michael Parenti, “psico-storico”. La strana conversazione, per lo più a senso unico, continua per un po’ fino a che si decide a firmarmi il passaporto, un altro alieno felice di accedere nel Paese della Cuccagna.

Il convegno si svolge su diversi piani del Graduate Centre di fronte all’Empire State Building. Qualcuno afferma che gli psicoterapeuti sono come antropologi in un paese straniero più che persone di scienza: imparano una nuova lingua invece di dissezionare e catalogare. È possibile, dice, lavorare con schizofrenici senza ricorrere ai farmaci. Mi chiedo se il terapeuta possa essere anche flaneur, perché si possono fare incontri da amore a ultima vista. Scribacchio quest’ultima frase in un treno londinese affollato una settimana dopo, e certo potrei trovarmi ovunque, in qualsiasi altra città del mondo, seduto ovunque con carta e penna, questi geroglifici l’unica prova d’essere stato al mondo. Può essere ovunque, la presenza svanisce nell’atto, ieri la metropolitana di New York, oggi le sale da tè itineranti di un treno della London Overground, le voci troncate di Brexiters pacatamente esultanti in un giorno di fine estate.

Così tanti modi per perdersi … oggigiorno mi perdo usando diverse metodologie e epistemologie: la rovina del soggetto, così Bataille chiamava il progetto esistenzialista. E per Levinas si trattava di guardare il mondo nell’assenza di un soggetto: tutto diventa esteriorità, compreso moi même. Qualsiasi scusa va bene; il risultato è lo stesso: si finisce per bruciarsi. Per esempio, New York, la città come id, fiume trascendentale – non trascendente – del tutto immanente e per sempre impossibilie, inevitabile. Plastic Inevitable. Basta un solo sguardo e ne sei schiavo. Oppure: la città provoca profonda identificazione e transustaziazione del sé: Dublino e Joyce, New York e Lou Reed, Roma e Pasolini, Bruges e Rodenbach, Instabul e Pamuk, Londra e Woolf, Chicago e Bellow. A che serve Dio se puoi avere una metropoli? Eppure, il senso del tempo persiste e con esso tutte le futili strategie che portano a un futuro sempre presente, o alla memoria involontaria d’un passato mai sepolto. Watch out, the world’s behind you. Addormentata e innocente, Lexington: il negozio di bagels, il caffé cinese, il bar di noodles giapponese, il minimarket.

Al convegno, una magnifica presentazione di Claudio Rud su Spinoza. Claudio è un poeta filosofo di Buenos Aires. Parla dell’immanenza, l’ospite non invitato nel circo della psicoterapia. Siamo relazione fin dall’inizio, insiste Claudio, ed è la relazione a creare il soggetto. Anche la cosiddetta presenza, propagandata come attributo semi-divino d’uno strizzacervelli divinamente sintonizzato, è il risultato della relazione. Le isole si uniscono nel profondo dell’oceano, ecc.

Quando finalmente trovo un botteghino cambia valute, l’affabile ragazzotto mi fraintende e dice “Bentornato!” Avevo blaterato qualcosa in risposta alla sua domanda, dicendo “Sono stato via dall’Italia da oltre trent’anni, ma lui pensava che fosse New York la mia dimora perduta da tempo e a cui ero ritornato. Ma certo che sono tornato, qui dove mio nonno sbarcò da solo con la sua valigia di cartone, il nonno Santo le cui ossa sono andate perse nel remoto cimitero d’Aspromonte durante i lavori di ristrutturazione, il nonno Santo con una sedia e tavolino per strada che scriveva le lettere dettate da altri lavoranti analfabeti sotto il cielo della terra promessa.

Sono sconcertato dal fatto che sia il mio seminario sullo zen e la terapia che il mio discorsetto sulla filosofia ferale siano stati accolti con entusiasmo. Fin troppo abitutato negli anni a vedermi ai margini, a blaterare radicalità che pochi comprendono e che incendiano alcuni nel bene e nel male. Il giorno dopo seduti su una panca a due passi dal traffico infernale sulla quinta strada, Claudio e io in conversazione sincera con il cuore in mano, la sua voce rauca da fumatore e il sorriso caldo d’intesa, entrambi riconosciamo nell’altro la nostra condizione di eretici a paghiamo il nostro dovuto omaggion a Spinoza e Derrida nel frastuono di sirene e motori, entrambi esuli e due volte esclusi.

La città come id, dicevo. Troppo impersonale? Allora lascia che ti parli della città come apparizione incarnata. L’ultima notte su un letto nudo, nella grotta di Platone, prima di dire addio a New York la beatitudine m’appare incarnata, il suo vestito rosso scivola sul pavimento d’una stanza sospesa nel buio nel bagliore della metropoli insonne. Nel buio mattino poi mi sveglio incespicando, grato per la mia piccola morte e la scomparsa breve e una volta in strada saluto la pioggia sulle guance con il mio sorriso terrone.

Manu Bazzano

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